di Franco De Luca
“Fare. Saper fare. Saper far fare. Fare sapere”.
Le parole di nonna Clotilde Rey, ripetute come un mantra a un giovanissimo nipote, devono essere state determinanti nella crescita di colui che è diventato poi uno tra i più importanti produttori del mondo. Angelo Gaja è un nome celebre, un grande rappresentante di un grandissimo territorio, quello del Barbaresco e, più ampiamente, delle Langhe. I suoi vini sono pregiati e ricercati in tutto il pianeta e la sua figura si muove in un alone di sacralità e irraggiungibilità, dovuto più che altro a una ritrosia caratteriale e a una contenuta vocazione alla mondanità.
Per queste ragioni la lectio magistralis tenuta a Napoli lunedì 22 maggio, tenacemente voluta e organizzata dal Delegato di AIS Napoli Gabriele Pollio, assume un’importanza ancora maggiore. Angelo Gaja non solo ha accettato senza esitazione un invito in cui noi per primi non credevamo fino in fondo, ma ha raccontato se stesso e la sua attività con generosità, precisione, passione e, in alcuni tratti, commozione, disintegrando sin dalle prime battute la distanza con la platea e rispondendo a ogni curiosità del pubblico con esemplare disponibilità.
Con garbo e pacatezza il vignaiolo piemontese ha illustrato le ragioni del successo di un’azienda che ha più di 150 anni; un’affermazione internazionale che si fonda su figure di notevole spessore, come il nonno Angelo e il grande papà Giovanni, e che si proietta nel prossimo futuro con grande slancio grazie alla moglie Lucia, vero deus ex machina della famiglia, e i figli: Gaia, Giovanni e Rossana. Con giovanile entusiasmo ha illustrato i cardini del suo ideale di impresa, come l’attenzione all’ambiente, con l’allevamento in vigna di senape, di fiori, di api e tutto ciò che può in qualche modo accertare lo stato di salubrità e di equilibrio dell’ecosistema in cui poi cresceranno le uve. Ha raccontato l’ardua scelta di avviare altre due aziende in Toscana dove gli stili enologici sono totalmente differenti. E, ancora, dell’ultima sfida, quella dell’Etna, dove carricante e nerello mascalese completano una gamma che ormai abbraccia tutta la penisola. Ma quello che ha colpito, al di là dei corposi contenuti che ha espresso in più di un’ora di intensa chiacchierata, è stata la sua grande energia, la travolgente voglia di lavorare, di innamorarsi ancora di nuovi progetti, di intraprendere nuove prove. Insomma, di essere protagonista anche all’età di 83 anni.
Angelo Gaja invecchia come i suoi vini, i matematici direbbero: in andamento quasi-statico. Proprio come con i vini, il tempo sembra passargli attorno, quasi sfiorarlo, con delicatezza.
Le degustazioni sono state tenute dal delegato già citato, insieme con il Presidente dell’AIS Campania Tommaso Luongo e il Referente regionale della Didattica, Franco De Luca, chi qui vi scrive. I tre si sono districati con apparente disinvoltura, alternandosi, ma celando in realtà l’emozione e l’onore di descrivere vini così importanti in presenza del loro autore, e davanti a una platea di grande spessore. Tra i presenti, infatti, ricordiamo Nicoletta Gargiulo, consigliere Nazionale dell’AIS e F&B manager del ristorante “La Serra” , Aldo D’Errico, F&B manager storico del “Quisisana”, Riccardo Presezzi, head sommelier del “Capri Palace”, Anna Tizzani, patron di “Conca del Sogno” e Maurizio Cerio, figura emblematica del ristorante “Don Alfonso” di Alfonso Iaccarino per il quale, in questa straordinaria occasione, ha ritirato un importante riconoscimento dall’AIS Campania.
La degustazione non è stata una verticale, i realtà nemmeno una orizzontale, è stata una passeggiata trasversale per vigneti disposti lungo lo stivale, con un picco finale di impressionante profondità che ha lasciato senza fiato.
Si è partiti con Idda 2022. Per un siciliano “Idda” è l’Etna, madre tranquilla ma austera, mentre “Iddu” è il più imprevedibile e intemperante Stromboli. In questo territorio, Il carricante è un simbolo a bacca bianca: un’uva tardiva che qui gode le magnifiche esposizioni e i complessi e ricchi terreni lavici. La bocca mostrava un equilibrio perfetto, con una sapidità marina che si contrapponeva magnificamente a una polposa morbidezza.
Con un salto degno di Sergej Bubka siamo finiti tra le vigne langarole di Treiso, dove ancora è possibile incappare in qualche vigneto circondato da muretti in pietra (alteni) e che in primavera si ricopre di un tappeto di piccoli fiorellini gialli (brassica). Alteni di Brassica 2020 è apparso un sauvignon dissetante e appagante, con un naso impregnato di verde dove si riconoscono pompelmo e cedro, erba appena falciata e caramella al limone, e un sorso che sorprendeva per scaltrezza e agilità.
Siamo rimasti nelle langhe per il bianco forse più celebre dell’azienda, quello che porta i nomi di nonna Clotilde e della piccola Gaia, la quale ha le stessa età delle vigne di chardonnay piantate nel 1979. Gaia e Rey 2021, proprio come il piccolo Mozart, appare qui come un giovane infante dal futuro radioso, ma già in grado di emozionare. Il profumo appariva corale, ricco, appassionante e anche il sorso mostrava tutta l’eleganza che negli anni lo ha elevato alla stregua dei grandi bianchi di Meursault e, più in generale, della bassa Cote d’Or.
Si è passati poi ai due rossi toscani. Qui il pioniere del grande vino italiano ha rivelato la sua quasi urgenza di lavorare altre uve, e in altri contesti. Necessità che ha appagato con due modelli quasi in antitesi. Il primo è Rennina 2018, il Brunello di Montalcino dell’azienda Pieve di Santa Restituta, che, prevendendo in purezza l’altra uva emblematica della nostra nazione, il sangiovese, è per stile il vino di Gaja più piemontese tra i non piemontesi. All’esame visivo mostrava un timbro carminio, lucente e trasparente, un naso floreale e di marasca, piacevolmente corredato di spezie dolci, e una bocca sorprendentemente snella per la tipologia, seppure piena e potente, come se una parte della massa fosse stata convertita in eleganza. Il secondo invece ha più aria di sfida, sfida che si ripropone quasi sessantacinque anni dopo l’analoga impresa di Mario Incisa della Rocchetta, piemontese che inventò Tenuta San Guido e il suo Sassicaia . Proprio come il predecessore anche Angelo Gaja si è innamorato di un territorio capace di “squarci di luce inenarrabili”, come lui stesso ha detto, e baciato dalla fortunosa circostanza di un incontro speciale, quello con l’architetto Bo. I due insieme hanno progettato un’azienda all’insegna dell’ecosostenibilità, e che produce il vino toscano di costa, con cabernet sauvignon e cabernet franc. Ca’ Marcanda 2020 è il rosso di struttura di Bolgheri, con trama impenetrabile di rubino splendente; naso di frutti rossi e spezie, ma anche di tabacco asciutto e rosmarino. Una scia salmastra esprimeva, infine, la benevola influenza marina.
Il finale è stato tutto piemontese. Il racconto di Angelo Gaja riguardo la difficile opera di ridonare all’amato padre il vigneto della fanciullezza e della nostralgia, sperss in dialetto locale, fa commuovere alcuni ospiti in sala (e forse persino lui). Il Barolo Sperss 2018 è stato senza dubbio il più bello agli occhi: una luce ipnotica e abbagliante, che tanti bianchi non possiedono, rapiva lo sguardo, inchiodandolo. Il naso era ricco e sovrapposto, per una complessità tanto evidente quanto difficile da sezionare. La ciliegia era intrisa di spirito e cacao, come un delizioso boero, a cui seguivano note di spezie e di terra, di cuoio e di erbe aromatiche. Una bocca avvolgente, quasi sensuale. Un bambino prodigio, di cui abbagliava l’impetuoso talento.
Il regalo finale di Angelo Gaja è stato il Barbaresco 1979, annata da incorniciare dopo una sequenza di vendemmie problematiche. Qui è stato impossibile contenere l’emozione, la sala si è zittita e le parole sono diventate pesanti. Solo alla vista il tempo disegnava un lievissimo alone arancio lungo l’orlo nel bicchiere, mentre nel cuore il vino conservava un timbro granato, luminoso e compatto. Al naso dominava ancora il frutto, stavolta più maturo e corredato da viole, mentre note di anice e arancia sanguinella seguivano in successione, ben fondendosi con sensazioni ferrose e speziate. Al sorso c’era tutto, tranne i segni degli anni passati. Il tempo su questo vino si è affacciato con timidezza, ha sbirciato da lontano come un ospite intruso e indesiderato, scorgendo ogni attore recitare ancora meravigliosamente il suo ruolo, in perfetta armonia con tutti gli altri. Un’atmosfera talmente serena da obbligarlo a restarsene ancora ad attendere da solo, in disparte. Una serata come questa non poteva finire diversamente, un grande dono che serberemo nei nostri cuori e che ha concluso una degustazione che rimarrà nella storia di AIS Napoli. Angelo Gaja non è solo un grande imprenditore, è soprattutto un uomo figlio di questi tempi, che produce vini senza età e che a Napoli si è donato con nobiltà d’animo a una comunità di grandi appassionati. Questo è quello che ricorderò di Angelo Gaja: il suo spirito moderno, il suo essere figlio dei giorni che vive intensamente. Proprio come il nostro amato Presidente Mattarella, che evidentemente ammira e di cui lui ha citato una frase che chiude bene questa meravigliosa esperienza: “Bisogna imparare a leggere il presente con gli occhi del domani”, e gli occhi di Gaja, sono proprio occhi del futuro.
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