Di Maria Grazia Narciso

Lo sento a telefono perché Vito Centrone vive a Londra.
Sette anni fa, a soli 20 anni, ha lasciato l’Italia e il noto ristorante di famiglia “Da Tuccino” a Polignano a Mare per intraprendere un percorso di successo nel mondo della ristorazione.

E’ una chiacchierata piacevole, il mio interlocutore è cortese, con un eloquio elegante per la sua età, piacevolmente punteggiato da termini in inglese perché ormai gli viene più facile.
Vito è la punta di diamante della D&D London, una realtà di 43 ristoranti, bar e hotel con sedi a Londra, Manchester, Leeds, Bristol, Parigi e New York, vanta una esperienza internazionale maturata in strutture di alto profilo nel Regno Unito e negli USA.
Un talento tutto italiano, manager, sommelier professionista (WSET), chef per pochi intimi, un concentrato di eleganza, competenza e aggiungerei ispirazione, uno sguardo fresco ma con idee chiare sul settore.
Chiedo a lui di raccontarmi dal suo osservatorio privilegiato lo stato attuale del settore e soprattutto il suo personale punto di vista.

Vito, sei pugliese di origine come me ma la tua vita ora è a Londra ed è da qui che vorrei partire.

Che bagaglio ti sei portato dall’Italia quando sei arrivato a Londra?

Il mio primo giorno a Londra è stato un mix di emozioni. Ero convinto di conoscere il mondo e di avere le risposte a qualsiasi domanda. E’ stata dura scontrarsi con la realtà e cioè che del mondo conoscevo molto poco. Ho portato con me la passione per la qualità e la conoscenza della materia prima, nello specifico il vino, il prodotto ittico e il mondo vegetale. Avevo la voglia di farcela e una grinta che mi piace definire “agonistica”, con la determinazione a lavorare in sala e stupire i miei ospiti. Con me uno zaino, un bagaglio a mano e due valigie piene di cose che ritenevo importanti ma Londra mi ha insegnato che tutto quello di cui avevo bisogno era dentro di me. Il resto l’ho imparato.

Che città hai trovato e quali opportunità ti ha offerto?

Sono partito da Polignano a Mare dove fin da bambino seguivo mio padre che aveva un particolare rispetto per la materia prima, quasi una venerazione. Era un uomo ispirato nel suo lavoro, faceva migliaia di km al giorno per reperire il pesce più fresco sul mercato per poi tornare al ristorante e servirlo abbinato alle più grandi etichette del mondo.
Sono arrivato a Londra poco più che ventenne. Qui il mio migliore amico, dopo avermi portato a cena al suo ristorante preferito (tante ostriche e qualche boccia), mi ha costretto ad avvicinare uno dei manager della location per consegnargli il mio CV. Non lo sapevo ma era il General Manager che, per qualche motivo, devo aver impressionato. E’ cominciata così la mia esperienza allo Scott’s Restaurant a Mayfair, ad oggi ancora uno dei miei ristoranti preferiti. Lì ho incontrato persone stupende che mi hanno dato tanto.

Ti va di raccontare i passaggi significativi della tua rapidissima carriera?

Sono partito come Chef de Rang, con un inglese traballante, a volte infatti capivo veramente poco. I ritmi e gli standard erano altissimi, non avevo mai visto una cosa del genere. Il ristorante era frequentato da celebrità, reali, clienti di alto profilo. Me la ricordo come una doccia gelida. Io ero convinto di sapere tutto ma i miei colleghi mi apparivano come macchine perfette, cordiali, cortesi, eleganti, operativi a una velocità a me sconosciuta. Sono stati momenti intensi e formativi ma ben presto la mia passione per il vino mi ha fatto accettare una posizione da Sommelier in un’altra location.
Due anni dopo ero pronto per la Serie A.
Ho risposto ad un annuncio per una posizione da Assistant Restaurant Manager per German Gymnasium, un’apertura recente che aveva avuto un successo clamoroso, un ristornate con due anime, un Grand Café dai volumi impressionanti e un ristorante fine dining.
Lì ho incontrato Michele de Girolamo, beneventano, manager in charge del Grand Café. Mi ha dato una chance, il trial è andato bene. Dopo diversi giorni ho ricevuto una e-mail, non era quello che mi aspettavo. Aveva scelto un altro, ma avrebbe passato il mio curriculum al Restaurant Manager (in futuro mi rivelerà “that he thought I was too fine dining” “pensava che io fossi troppo qualificato”). Contemporaneamente ho ricevuto una chiamata per un altro colloquio con Eddy Ferrouillat, una delle figure cardine nella mia carriera, il mio Jedi Master (è ancora salvato così nella mia rubrica).
Mi ha proposto una prova, il suo team era una forza della natura con un killer instinct.
Alla fine del servizio ci siamo seduti per una chiacchiera sul mezzanino dell’ edificio, una struttura fantastica, la prima palestra costruita nel Regno Unito a metà del XIX secolo con una vista spettacolare. E’ qui che Eddy ha pronunciato la frase che ha cambiato la mia carriera: “From now on you will eat, breathe, sleep GermanGym” (da ora in poi mangerai, respirerai, dormirai GermanGym). Voleva dirmi che per arrivare in alto avrei dovuto dedicare tutto me stesso al lavoro, ancora di più di quanto non avessi già fatto.

Come ti sei sentito?

Ho lavorato senza mai controllare l’orologio, ho fatto turni lunghissimi fino alle 3 di mattina ma ho imparato l’impossibile, ho scoperto il valore dei rapporti umani condividendo con il mio team anche il divertimento, dentro e fuori dal ristorante.
Nel frattempo osservavo a distanza ma con ammirazione il General Manager di German Gymnasium, Sam Bernard, uomo di incomparabile esperienza al quale ancora oggi mi affido quando in doubt.
In seguito mi sono trasferito a Manchester per un’incredibile opportunità, poi ancora a New York per realizzare il mio sogno, ma ciò che ho imparato li farà sempre parte del mio bagaglio professionale.

Dal tuo punto di vista quali tratti di te sono stati decisivi perché l’azienda decidesse di investire in una risorsa così giovane?

Credo che la mia determinazione e la mia passione siano stati fondamentali, ma quello che mi ha aiutato molto sono state le relazioni umane in azienda. Ho sempre cercato di farmi notare mostrando quello che so fare, rather than dirlo.

Come definiresti il pubblico londinese dell’alta ristorazione? Quello newyorkese?

Per gli inglesi un aggettivo: royal, cioè sono cordiali, eleganti, ma non vogliono sapere troppo di te, ma devono sapere che possono contare su di te.

Gli americani invece vogliono sapere tutto di te, per prima cosa il tuo nome di battesimo.

Che tipo di manager sei? Qual è la tua impronta?

Leading by example, leading by explanation (condurre con l’esempio e la spiegazione)
Tutti credono che essere un manager significhi dare ordini e vederli eseguiti. La realtà is that you have to give clear instructions, explain them and, when your team is down, you’ll have to support them and bring them back up, showing them you are all in this together. (è che devi dare istruzioni chiare, spiegarle, e quando il tuo team è giù devi supportarlo e tirarlo su, mostrando che tu ci sei).
Un vero manager pulisce l’argenteria e asciuga i bicchieri come ogni altro membro del team, the only difference is that you’ll do it in a suit (ndr l’unica differenza è che tu lo farai in un abito).

Quali sono gli aspetti più interessanti del tuo lavoro? I più complicati?

Gli aspetti più interessanti sicuramente sono il training e la gestione del team. Ho avuto l’occasione di lavorare con superstar già formate, futuri manager e ho avuto giovani appena affacciati al mondo dell’ hospitality. Tutto sta a capire come aiutarli a trovare la propria strada e seguire le loro naturali inclinazioni.
Se ci penso in realtà niente è complicato, ma chiunque abbia lavorato nella ristorazione sa che ci sono giorni in cui il ristorante è strapieno e devi correre senza far sentire al tuo ospite la pressione. E’ in quei giorni che ti innamori del tuo lavoro e che hai l’opportunità di stringere relazioni autentiche con il tuo staff. Quando sei sotto pressione anche il migliore ha bisogno dell’aiuto del collega. Come manager sono pronto a coprire tutti e sono pronto a sostenere sempre la mia squadra.

Era così che ti aspettavi la tua vita?

Sì, sicuramente volevo una vita con la valigia sotto il letto e la amo così com’è.

Cosa ti ha portato a New York?

Un’occasione, c’era una posizione vacante e l’ ho colta al volo. Era il sogno della mia vita. Non ho mai voluto essere in nessun altra parte se non lì.

Cosa dobbiamo imparare dagli inglesi, cosa dagli americani?

Degli inglesi mi piace il loro modo di applicarsi, la dedizione, la capacità di eseguire i compiti alla lettera, noi italiani tendiamo sempre ad interpretare.
Dagli americani dobbiamo imparare la capacità di accogliere. Se entri da solo in un bar sai per certo che non ne uscirai da solo.

Qual è il rapporto del pubblico londinese e newyorkese con il vino italiano?

Da entrambi il vino italiano era visto come un cheap entry level. Da qualche anno la conoscenza del territorio italiano è più capillare, l’ Italia è conosciuta più a livello regionale che nazionale. Il consumatore beve il vino che gli ricorda la località dove è stato in vacanza. Questo a New York molto più che a Londra.

Come è vista la Puglia del vino a Londra e New York?

La Puglia è diventata famosa, quasi un fenomeno mediatico mondiale grazie allo sviluppo del turismo degli ultimi anni.

Tu come la vedi?

La nostra regione è cresciuta in maniera esponenziale, riesce sempre meglio ad esprimere il terroir. Propongo spesso il vino pugliese ma non perché io sia campanilista. Il primitivo è il vino che vendo di più. A New York, mi ricordo, vendevo tanto il Cacc’e mmitte di Alberto Longo.

In che modo i cambiamenti epocali che stiamo vivendo hanno impattato nel settore della hospitality?

La Brexit è stato il primo grande cambiamento. A Londra arrivavano tutte giovani promesse, con skills importanti ma che ripartivano da zero nella propria scalata professionale. La Brexit ha interrotto questo flusso virtuoso, non c’è più un vivaio per cui c’è crisi nel mercato delle risorse umane.

Poi il Coronavirus. L’ho visto esplodere a New York. E’ stato tragico, il mio director ha dovuto licenziare 200 persone senza avere il tempo neanche di conoscerle. New York è cambiata molto ma il Governo americano ha fatto tantissimo per la ristorazione. Mi sento di dire che NY tornerà più forte di prima.

Come vedi i prossimi anni del settore?

Fino ad oggi c’erano risorse specializzate, dal profilo molto definito, ora chi lavora dovrà essere più flessibile e resiliente. Gente con più functioning skills e competenze tecnologiche. Negli USA quasi nessuno più usa carta e penna, neanche la piccola ristorazione.

Dicevi che anche tu come il mio Delegato AIS Tommaso Luongo sei un “Uomo delle Bolle” e che se ti lasciassero da solo su un’isola deserta con una bottiglia di vino sarebbe uno Champagne ma rigorosamente freddo (poi mi spieghi come!) Quando dici bianco a quale nazione pensi?

Alla Francia, dalla complessità dello chardonnay della Borgogna alla freschezza del Melon de Bourgogne della Loira.

A quale regione italiana?

Dopo una vita a seguire le bolle direi Alto-Adige o Lombardia. Del resto, la prima volta in vita mia in cui ho scelto un vino in un ristorante avevo 9 anni, era Annamaria Clementi 1997 e mio padre ha quasi pianto dall’emozione.

Mi raccontavi di quella volta del mock-service o come dici tu “Murder your boss”. Mi racconti come è andata?

E’ stato un esercizio importante di self–assessment, utile a capire chi sono, dove sono e soprattutto trasmetterlo al mio team.
Li ho fatti sedere a tavola e ho chiesto loro di comportarsi da clienti. Io ho servito al tavolo. All’inizio erano confusi, hanno pensato fosse un gioco, poi hanno capito che era una opportunità. Ci siamo divertiti.

Cosa consiglieresti a un ragazzo che voglia fare carriera in questo settore?

Di non vedere la nostra come una professione ma come una passione, di non contare i minuti di lavoro ma considerare ogni attimo come occasione di formazione, di guardare a quelli più bravi e di non aspirare al ruolo del proprio capo ma a quello del capo del proprio capo.

Da cosa riconosci il tipo di cliente che hai al tavolo?

Orologio, cappotto e scarpe. Dicono sia la regola d’oro dell’hospitality, ma con tante eccezioni e contestualizzazioni. C’era una volta in cui riconoscevi il cliente dalla stretta di mano, ma il coronavirus ci ha tolto questo piacere.

Come ti rapporti al tavolo con un intenditore di vino altospendente?

Quando ho un intenditore al tavolo non sono invadente ma aspetto che faccia domande, porto la carta, chiedo se ha già un orientamento o attende di ordinare il food. Non propongo mai un vino costoso solo perché mi rendo conto che è disposto a spendere e questo anche il cliente più esigente lo apprezza. Miro a guadagnarmi la sua fiducia. Se lavoro bene tornerà e la terza volta potrò sentirmi libero di osare con la mia proposta.

Qual è la bottiglia più prestigiosa che hai stappato per te?

Krug Clos du Mesnil 1985, tutta mia, con gamberi rossi e burrata in riva al mare.

L’abbinamento più ardito che hai suggerito?

Marito e moglie chiedevano due vini di profilo completamente diverso ma volevano ordinare solo una bottiglia. Lei un rosso strutturato big and bold, lui un rosé di Provenza, non volevano ordinare due diverse bottiglie. Ho proposto Profumo di Vulcano di Federico Graziani. Hanno ordinato la seconda bottiglia, valli a capire.

Quale è stato il tuo momento più difficile e quello di gloria?

Il momento più difficile è stato la mia partenza per Londra. Era un momento molto critico della mia vita personale e un momento particolare per la mia famiglia. Ho avuto due grandi amici che mi hanno messo sull’aereo e hanno detto vai, you can do it.

Il momento di gloria? Quando ho presentato il mio passaporto con il visto per gli USA nel 2019, il mio sogno.

Ti chiedono spesso di mettere a posto situazioni poco performanti e dopo poco il tuo intervento cambia le cose. Cosa cambieresti nel settore hospitality in questo momento?

Lavorare nell’ hospitality non può essere solo un lavoro, deve essere una passione.
La scuola alberghiera è una buona base ma non è sufficiente ma poi ci vuole dedizione ed esperienza sul campo.

Dove ti vedi da qui a tre anni?

Il mio sogno accademico è sempre stato studiare a l’ Ècole hôtelière de Lausanne, spero di riuscire a ricavare del tempo per magari conseguire un Master lì.
Professionalmente mi vedo ovunque sorga una opportunità che mi corrisponde, ovviamente spero a New York.

Allora ci diamo appuntamento, magari a New York, per brindare insieme al tuo successo.