Di Franco De Luca
L’appuntamento è alle 10:30 di venerdì 28 settembre. Per paura di fare tardi alcuni di noi sono lì un’ora prima. In un’ora Barbaresco la puoi percorrere tutta per 15 volte; non ci vuole molto per visitare il piccolo borgo di 600 anime che ha l’Enoteca Regionale in una chiesa sconsacrata, e questo la dice lunga sulla sovrapposizione, tutta piemontese, del sacro con il vino. Quando ci siamo finalmente tutti, suoniamo il campanello e la porta che si apre cigola, non perché sia vecchia o malandata, ma perché è di quelle che non si aprono spesso e non si aprono a tutti.
Siamo da Gaja, tra le principali aziende del Piemonte, il che vuol dire tra le maggiori d’Italia, il che vuol dire tra le prime del pianeta… e mi fermo qui. Rossana Gaja ci accoglie con disarmante semplicità e con l’attenzione e la cura che immaginavo riservata a sceicchi o magnati del petrolio, all’inizio sembra un’atmosfera irreale ma poi mi rendo conto che la gentilezza è autentica e questo ci rilassa provocando in molti di noi un inaspettato moto di benessere.
“Essendo la struttura immersa nel cuore del paese, soggetta dunque a vincoli di ogni genere, non abbiamo potuto ampliarla e adornarla come avremmo voluto” racconta Rossana quasi scusandosi. La giovane donna non immagina che non siamo assolutamente in grado di fare valutazioni che non siano eccelse. E comunque, una volta attraversata l’arteria del paese mediante un tunnel sotterraneo (sì, avete letto bene) che conduce al Castello di Barbaresco, sede dell’azienda, il bello diventa sublime e allora viene quasi a noi di scusarci per essere lì.
Non sto qui a raccontare note di degustazione che avrebbero sapore di irriverenza e inoltre non voglio associare a un’esperienza del genere la mia personale interpretazione dei vini, dico solo che se arrivassero gli alieni con intenzioni non chiare e io fossi il responsabile delle negoziazioni, farei loro assaggiare il Sorì San Lorenzo del 1999 e sono certo che riuscirei a predisporre gli animi alla fratellanza universale, così come nello spazio manderei, insieme a Mozart e a Beethoven anche il Barbaresco del 2015 (sai che affinamento…), e forse sarebbe la volta buona che si mostrerebbero a noi con maggiore frequenza e con minore ambiguità. Ecco, solo una parola sul Barbaresco del 2015: per quanto all’inizio della sua lunga e promettente esistenza, mai prima di questo momento avevo trovato la parola “elegante” opportuna e propria per fotografare perfettamente un vino.
Tra affreschi del ‘700 restaurati che evocano paesaggi bucolici del nord Europa, la degustazione si è consumata in una atmosfera rilassata e nello stesso tempo solenne. Oltre alle due già citate, le altre prestigiose etichette sono state Gaja & Rei del 2016, Barolo Conteisa del 2014 e il Gosset Champagne Extra Brut (marchio importato in esclusiva in Italia).
La parola per Gaja è SONTUOSO. Sontuoso è il castello, sontuosa è l’accoglienza, sontuosa la degustazione e sontuosi i vini. Quando all’estero voglio vantarmi di qualcosa dico: “Sono italiano come Colombo, Michelangelo, Troisi, Eduardo, Leonardo, Totò e Angelo Gaja“.
Solo per questa prima visita abbiamo avuto il piacere di avere con noi Mauro Carosso; è stato bello condividere anche con lui questa fantastica esperienza.
Dopo un breve e fugace pasto (l’unico della due giorni di dimensioni ragionevoli) siamo partiti alla volta di Rocchetta sul Tanaro per visitare un altro caposaldo dell’enologia piemontese. Giuseppe e Raffaella Bologna sono i figli di Giacomo, uno dei personaggi più importanti della storia del vino d’Italia, un uomo che un giorno si è arrampicato sull’Everest per urlare al mondo: “Badate maledetti che il barbera non è il fratello scemo del nebbiolo…”, e da allora niente è stato più come prima. Le uve gregarie piemontesi hanno cominciato ad acquistare maggiore dignità e sono nati nuovi vini che hanno conquistato il mondo, vedi il celebre Bricco dell’Uccellone (1984). Come molti avranno capito l’azienda è Braida e anche qui camminiamo schiacciati dall’emozione: siamo in un posto dove si è consumata una rivoluzione e questo provoca farfalle nello stomaco coma agli innamorati.
Raffaella si occupa prevalentemente del commerciale. Lei non lo sa ancora e non so se avrà piacere di scoprirlo da noi, leggendo questo articolo, ma è più napoletana dei napoletani. La sua ospitalità è di quelle che non dimentichi, perché è vera e genuina, come vera e genuina è lei. Giuseppe è invece l’enologo ed appare, almeno in un primo momento, più taciturno. Nei lunghi capelli si intravedono aggrappati i suoi sogni. Quando ci porta in vigna per mostrarci il suo gioiellino ha gli occhi emozionati. Un po’ come il papà ha fatto col barbera, anche lui vuole dare maggiore dignità a uno di quei vitigni minori di cui si sente parlare sempre meno: il grignolino. Anche se appare molto determinato e lucido nel suo lavoro, la sensazione è che sia un uomo al di sopra degli schemi e questo lo rende ulteriormente affascinante. Ricorderò sempre questa scena: attendevamo l’arrivo di Raffaella nel cortile deserto dell’azienda quando abbiamo visto arrivare, a tutta velocità e nella nostra direzione, un quad rosso; il veicolo, dopo una curva alla Lauda, è entrato sparato in un capannone producendo un gran chiasso e facendoci prefigurare il peggio.
“Adesso uscirà il proprietario e gli farà un cazziatone”, ho sussurrato a Chiara Cimmello e a Gabriele Pollio che erano accanto a me, “Veramente è lui il proprietario!”, ha risposto Chiara.
Raffaella e Giuseppe Bologna fanno parte di quella categoria di figli la cui vita può apparire in discesa ma che in realtà è in salita, data la insormontabile figura con cui sono chiamati a confrontarsi ogni giorno. Tuttavia, vini come Ai Suma e Montebruna, nati e cresciuti con loro, non solo rendono onore al mito ma ne nobilitano ulteriormente la memoria.
La degustazione è stata memorabile e si è consumata in parte in azienda e in parte a cena, presso la trattoria “I Bologna”, gestita da Carlo Bologna, fratello di Giacomo, insieme con la moglie Mariuccia, il figlio chef Beppe e sua moglie Cristina. Qui abbiamo assaggiato i grandi classici, come La Monella e Bricco dell’Uccellone nelle annate 2013, 2014 e 2015, insieme con i più moderni (si fa per dire) Baciale’, Limonte e il già citato Montebruna. A proposito di quest’ultimo, va segnalato che se l’annata 2018 sarà particolarmente straordinaria è perché l’AIS Napoli ha significativamente contribuito alla vendemmia. ;-)
La parola per Braida è FAMIGLIA. Famiglia è il sentore organolettico che si respira in ogni vino, ma anche in tutto ciò che ci circonda: gli operai vendemmiatori che ci hanno tollerato con santa pazienza, gli zii e i cugini ristoratori che ci hanno coccolato come parenti acquisiti, il sindaco (o la sindaca) del paese di Rocchetta Tanaro che è venuto (o venuta) a salutarci due volte, il medico del paese che non disdegna di dare una mano quando c’è da raccogliere l’uva… mancavano solo il prete e il maresciallo dei carabinieri e avevamo completato con tutte le autorità.
Infine, l’ultima visita è stata presso La Spinetta, che in realtà ha aperto e chiuso il nostro viaggio.
La sera del giovedì, infatti, appena arrivati nelle Langhe, la prima tappa è stata Alba: cena all’APE Wine Bar di Contratto (storico marchio di Canelli acquisito dall’azienda nel 2011). Il For England è stato il benvenuto più sensazionale che potessimo aspettarci. Un Blanc de Noir (in magnum) da 42 mesi sui lieviti, di una gradevolezza indescrivibile… Accompagnava all’altare la battuta di Fassona con aglio e olio ma è riuscito a sostenere mirabilmente anche l’uovo al tegamino al tartufo bianco, facendo sì che per tutta la cena nessuno dei dieci commensali aprisse una sola bottiglia d’acqua (e questa non è una battuta).
Il sabato mattina invece siamo stati in azienda a Castagnole delle Lanze, dove Enrico ci ha accolti con rara gentilezza. In una piacevole, ricca ed esaustiva chiacchierata, Enrico ci ha mostrato la capacità imprenditoriale di Giorgio Rivetti e la sua vocazione a sapersi sempre adeguare alle varie vicissitudini pur di perseguire ad ogni costo la qualità. L’azienda possiede tutti i macchinari, gli strumenti e le capacità per dare vita a vini eccelsi, ma nel contempo sorprende l’assenza di schemi rigidi e la vocazione a interpretare, di volta in volta, le condizioni al contorno per individuare la migliore strategia di intervento. Non abbiamo avuto modo di conoscere Giorgio Rivetti, ma ne abbiamo sentito la forza nel racconto appassionato di Enrico; si percepiva netta l’ammirazione dei collaboratori e, soprattutto, la sua energia nell’aria.
La parola per questa azienda in realtà sono due: ENERGIA e FLESSIBILITA’. Questo perché, al di là delle mie esagerazioni figlie della profonda passione che nutro per questa terra, ci ha colpito molto l’approccio estremamente duttile e la potenza delle idee, e nessuna altra immagine sarebbe più idonea del rinoceronte per descrivere questo concetto. L’icona dell’animale, elegante e corazzato, era stata scelta tra i quadri di Dürer per adornare in un primo momento le etichette del Barbaresco, solo successivamente è diventato il simbolo di un imprenditore e della sua impresa.
La degustazione è stata tra le più ricche cui abbia mai partecipato; forse Enrico si aspettava ottimisticamente un segnale di resa da parte nostra ma non sapeva con chi aveva a che fare. Per pietà nei suoi confronti, dal momento che ci teneva tra i piedi da oltre due ore, al dodicesimo vino ci siamo guardati negli occhi e abbiamo deciso di denunciare una stanchezza sensoriale che in realtà non avevamo. I vini bevuti sono stati molto al di sopra delle aspettative e tutti noi ci siamo ritrovati nel celebrare, tra gli altri, il superbo Barbera d’Asti Bionzo del 2005 e il magnifico Barbaresco proveniente dal cru Vigneto Gallina del 2015.
Siamo così giunti alla fine del viaggio e del racconto, ma manca ancora una parola. Per questa è doverosa una brevissima premessa.
Peppe Cimmello lavora nel mondo del vino da sempre e da sempre ha contatti con le maggiori aziende del nostro paese. Il suo rigore e la sua serietà hanno consentito la contaminazione dell’amicizia nei rapporti professionali con calibri come Angelo Gaja o Giacomo Bologna. Questa è una cosa rara, preziosa ma anche estremamente pericolosa nell’ambito lavorativo, e richiede grandi doti umane. Gli stessi valori Giuseppe li ha trasmessi a Francesco e Chiara ed è proprio in virtù di questo patrimonio di affetti consolidatosi negli anni che questa piccola fronda dell’Ais Napoli, capitanata da Tommaso Luongo, ha potuto beneficiare di un simile dono.
La quarta e ultima parola è dunque GRATITUDINE. Gratitudine nei confronti dei Cimmello, nella figura di Chiara che ci ha fisicamente accompagnati, dei produttori menzionati e gratitudine anche verso la vita… perché se godiamo gioie del genere allora vuol dire che siamo tra i fortunati, e questo è bene non scordarlo mai.
P.S. (a cura del delegato ;-) )
Con noi c’erano anche Anna Ciotola e Gabriella Imparato, due fotografe (e sommelier) d’eccezione, che hanno “fissato” con i loro scatti i momenti più belli di questo viaggio indimenticabile. Grazie!
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