“Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza? Questa domanda se l’era posta Parmenide nel sesto secolo avanti Cristo. Egli vedeva l’intero universo diviso in coppie di opposizioni: luce-buio, spesso-sottile, caldo-freddo, essere-non essere. Uno dei poli dell’opposizione era per lui positivo (la luce, il caldo, il sottile, l’essere), l’altro negativo. Questa suddivisione in un polo positivo e in uno negativo può apparirci di una semplicità puerile. Salvo in un caso: che cos’è positivo, la leggerezza o la pesantezza? Parmenide rispose: il leggero è positivo, il pesante è negativo. Aveva ragione oppure no? Questo è il problema. Una sola cosa è certa: l’opposizione pesante-leggero è la più misteriosa e la più ambigua tra tutte le opposizioni.” (M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi, 1985)
Proprio lo scontro tra ‘leggerezza’ e ‘pesantezza’ è stato l’oggetto della degustazione tenutasi il giorno 11 novembre presso l’Enopanetteria i Sapori della Tradizione. La degustazione, guidata con la solita perizia e bravura da Franco De Luca vice-delegato dell’AIS, per l’occasione affiancato da Paolo Fasciglione degustatore AIS, è stata organizzata secondo una serie di ‘challenge’, di sfide, fra tre coppie di vini il cui corpo nell’immaginario collettivo degli enoappassionati non potrebbe essere in alcun modo confrontabile. Il tutto si è svolto nell’affascinate sala di degustazione dell’Enopanetteria e con le leggendarie pizze di Stefano Pagliuca come attrazione gastronomica. La degustazione ha costituito l’occasione per discutere e riflettere sulle seducenti trame che legano il corpo al vino e sui luoghi comuni che solitamente ricorrono quando si affronta questo tema. Capita a volte, infatti, di vedere o sentire che un giudizio non particolarmente lusinghiero su di un vino sia accompagnato dalla motivazione che esso sia dovuto alla carenza di concentrazione o alla debolezza di struttura: in sostanza si è portati a considerare la ricchezza estrattiva come l’unico parametro per stabilire un grande vino: un po’ come se solo i vini inchiostrosi, iper-fruttati, alcolici e ultra-speziati siano veramente i più ricchi, i più sani e i più longevi. Tale punto di vista è il risultato di una precisa fase storica che ha caratterizzato il movimento del vino, fase in parte coincidente con l’affermazione dei grandi vini del nuovo mondo, in cui l’abbondanza di sostanze coloranti, di elementi aromatici fruttati o legnosi, di alcol e di tannino è stata considerata (anche da parte della critica, oltre che dai consumatori) come espressione del pieno compimento enologico in un vino, laddove l’assenza assoluta di sovrabbondanze organolettiche (siano esse cromatiche, aromatiche o gustative) è stata interpretata come una qualità negativa. La conseguenza è nota: l’inseguimento, a cavallo della fine del vecchio millennio e l’origine del nuovo, di corredi polifenolici epici, di concentrazioni cromatiche sempre più dense tendenti addirittura all’inchiostro, di trame quasi-masticabili, e di gradazioni alcoliche da vini liquorosi, in un orgia mistica di over-size organolettico ed exploit fruttato-estrattivo. Oggigiorno, invece, la tendenza verso l’alleggerimento dei prodotti della gastronomia ha favorito l’inizio di un processo di revisione di questo approccio, portando nel vino la tendenza ad alleggerirne ossatura e peso. Ciò sta contribuendo a restituire centralità alla questione, questa si veramente essenziale, del bilanciamento armonico di tutte le componenti organolettiche del vino, evitando di sacrificare sull’altare dell’estrazione l’espressione aromatica del vigneto e del suo ambiente pedoclimatico (qualità, forse, principe da ricercare per stabilire se siamo o meno in presenza di un grande vino). Insomma, anche un vino ‘leggero’ può essere senz’altro un ‘grande’ vino e casomai anche competere alla pari con i suoi simili appartenenti alla categoria dei pesi massimi. Maturità e dolcezza dei profumi però opportunamente bilanciate da precisione, freschezza e mobilità; l’espressione varietale del vitigno non sovrastata dalle folate alcoliche o dalla speziatura ceduta dal legno; l’equilibrio vibrante tra frutto e acidità; oppure l’estrazione delle sostanze coloranti e del tannino prudente e tale da non produrre vini ingombranti per il palato, sono tutti caratteri che possiamo ritrovare in un grande vino leggero, come ad esempio tra i rossi un Bardolino o un Rossese di Dolceacqua e tra i bianchi una Falanghina dei Campi Flegrei o un Bianchello del Metauro. In conclusione, e riprendendo l’interrogativo di Kundera sull’eterna diatriba tra leggerezza e pesantezza: in relazione al vino … “che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza?” La risposta che emerge dalla serata è …dipende! Se in un àncora la leggerezza è un attributo negativo perché non le consente di adempiere alla sua specifica funzione, e cioè impedire che la nave vada alla deriva, e, viceversa, se in una penna è la pesantezza ad essere un valore negativo in quanto non consente alla penna stessa di essere agevolmente maneggiata dalla mano dell’uomo per scrivere, la stessa logica deve essere applicata con riferimento al vino. Aldilà dei gusti individuali e delle inclinazioni soggettive, in effetti, la specifica funzione del vino, la sua missione naturale, il fine ultimo, è quello di essere abbinato in modo armonico con il cibo: è dunque in base a tale fine che deve dipendere la scelta tra un vino leggero oppure uno strutturato. Piatti strutturati, ricchi di ingredienti e che riempiono il palato di sensazioni (gustative, olfattive e tattili) durante la masticazione e dopo la deglutizione richiederanno vini in grado di bilanciare questa potenza strutturale; viceversa cosa sposa al meglio una insalata di mare se non un bianco leggero e gradevole, che non invade il palato ma lo asseconda con la sua impronta sapida e gli accenni minerali?
La degustazione I° Impari Match
DOC Aversa Asprinio Santa Patena 2013 – I Borboni vs. IGT Venezia Giulia Ribolla Gialla 2005 – Radikon
È credenza comune che l’Asprinio di Aversa sia un vino semplice, privo di particolare struttura, e da bersi giovane perché destinato altrimenti a veloci cedimenti organolettici nel caso in cui si provi a prolungarne la longevità. Il Santa Patena de I Borboni smentisce quest’idea. Proveniente da uno specifico cru in contrada Giugliano, questo vino è prodotto con uve coltivate con Sylvoz su piede franco, e quindi senza ricorrere al tradizionale metodo di allevamento locale: l’alberata aversana. La scelta si giustifica proprio con l’esigenza di consentire alla vite di estrarre meglio e più facilmente le proprietà dal terreno ottenendo quindi il massimo dell’espressività gusto-olfattiva e una ‘struttura’ idonea per reggere l’evoluzione nel tempo. I terreni sabbiosi e di origine vulcanica, infine, rinforzano l’eleganza del vino donando sfumature minerale percepibili sia al naso che al palato. La Ribolla Gialla è un vitigno autoctono del Friuli Venezia Giulia dove viene allevato nel Collio (la zona a nord di Gorizia, fino al vicino confine sloveno) e nei Colli Orientali (la fascia collinare che circonda la città di Udine). Normalmente la Ribolla Gialla genera un vino la cui leggerezza lo rende un vino molto beverino e versatile, adatto a diversi momenti della giornata, dall’aperitivo alla cena. La Ribolla Gialla di Radikon invece, è un vino estremo senza compromessi, fatto di estremi, ma è al tempo stesso un vino che esprime come pochi altri (e forse come nella stessa regione solo i vini di Josko Gravner sanno fare) l’unione tra vitigno, terroir, lavoro dell’uomo e le tradizioni culturali locali. Proviene, infatti, da un vigneto di due ettari le cui uve sono vinificate in purezza attraverso l’utilizzo di un antica tecnica tradizionale: quella di sottoporre anche le uve a bacca bianca a lunghe macerazioni a contatto con le bucce. Questa pratica esalta le caratteristiche della Ribolla Gialla in cui gli acini molto carnosi e la buccia spessa sono compatibili con macerazioni prolungate a contatto con le bucce che consentono di estrarre l’enorme quantità di sostanze in essi presenti e che conferiscono al vino longevità, struttura e potenzialità di evoluzione. Nella Ribolla Gialla 2005 di Radikon, una volta completata la fermentazione (svolta in tini di rovere a contatto con le bucce, senza controllo della temperatura e senza aggiunta di lieviti) il periodo di contatto con le bucce ha raggiunto i quattro mesi. È un vino, dicevamo, che ‘disorienta’ i sensi. Il particolare processo di vinificazione genera tinte molto cariche, tra l’oro antico, l’aranciato e l’ambra. Non a caso questa tipologia di vini è conosciuta come ‘orange wines’ (anche se sarebbe meglio l’impiego della terminologia ‘bianchi macerativi’) a segnalare proprio come il loro colore fuoriesca dai tradizionali canoni di classificazione cromatica dei vini ottenuti da uve a bacca bianca. La loro struttura è imponente; il loro bagaglio olfattivo appare, in alcuni casi, infinito; sono vini dai nasi di solito complessi, molto spesso ampi, ma anche molto ampi; apparentemente già evoluti, e caratterizzati da note candite, speziate, tostate. Il loro palato è dotato di sapidità, di freschezza e ovviamente di un insolita presenza tannica dovuta al contatto con le bucce; il loro gusto è tutto giocato sull’effetto sorpresa derivante dalle attese ingenerate dall’analisi olfattiva, che fanno prefigurare un vino passito, o comunque con un rilevante residuo zuccherino, e l’assoluta secchezza del gusto.
DOC Aversa Asprinio Santa Patena 2013 – I Borboni
Splendida livrea gialla luminosa. L’assetto olfattivo rivela una marcata impronta minerale di gesso e di ossido di calcio, cui si intrecciano sentori di fiori di camomilla e poi note di buccia di lime. L’assaggio è vibrante; il martellante ritmo impresso dall’acidità e dalla sapidità non risulta mai invadente in quanto è, e verrebbe da aggiungere ‘sorprendentemente’, ben sorretto dal volume del vino che riempie ed avvolge palato. Chiusura di rara eleganza con un lungo finale tutto giocato su ritorni olfattivi minerali.
IGT Venezia Giulia Ribolla Gialla 2005 – Radikon Inizialmente una leggera opalescenza (del tutto accettabile per questa tipologia di vino) impone di attendere qualche minuto che il deposito di particelle in sospensione riveli il colore in tutta la sua maestosità: un luminoso ambra con screziature ramate nella tessitura. Il naso è leggermente ridotto e non raggiunge sufficientemente quell’eleganza cui ci ha abituato la Ribolla di Radikon. Ciononostante, il ventaglio aromatico è scandito dal continuo andirivieni olfattivo di agrumi canditi, fichi secchi, miele d’eucalipto, cera d’api, incalzati poi dalla resina, da sbuffi iodati e dalle erbe officinali. L’ingresso in bocca è ritmato dall’azione sinergica della freschezza e della sapidità che, insieme alla lieve presenza tannica, bilanciano ampiamente la dote alcolico-glicerica del vino. Finale lento e che si prolunga su note salmastre e balsamiche.
II° Impari Match
DOC Rossese di Dolceacqua Bricco Arcagna 2011 – Terre Bianche vs. Primitivo di Manduria ES 2013 – Gianfranco Fino
Pochi altri vitigni riescono ad interpretare la dicotomia leggerezza-pesantezza come il Rossese: un vitigno che è in grado di originare tanto dei vini che esaltano la leggiadria, la finezza e l’estrema piacevolezza di beva, quanto dei vini che si caratterizzano, invece, per la struttura imponente, per i profumi “scuri” come il tabacco e di liquirizia, e casomai sono dotati di chiusure salmastre e minerali. Quello oggetto della degustazione, il Rossese Bricco Arcagna di Terre Bianche, prodotto da vigne centenarie e frutto di uno studio sul campo di oltre dieci anni, rientra proprio in questa seconda tipologia di Rossese. Un Rossese, quindi, di grande struttura in grado di reggere il passo di un vero e proprio ‘monumento’ alla plasticità quale è il suo ‘avversario’. Il primitivo ES di Gianfranco Fino è stato capace di affermarsi nel strettissima cerchia dei più grandi vini italiani in pochissimi anni. L’avventura di Gianfranco inizia infatti solo nel 2004 con l’acquisto di un vecchio vigneto ad alberello di soli due ettari poi portati a diciotto. Cura maniacale della vigna, rese bassissime, pochi interventi in cantina unicamente mirati a valorizzare la naturale pulizia espressiva del primitivo sono gli elementi di un’alchimia perfetta che ha portato ad un successo così immediato. L’ES nasce da vigne ad alberello di 40, 50 anni e dal recupero delle vecchie tradizioni in campagna, come ad esempio quella legata all’assemblaggio di uve provenienti da diversi vigneti. Il vino rivela una potenza e un corpo davvero sorprendenti, una …‘muscolarità’ che tuttavia non è fine a sé stessa ma è perfettamente inserita in un quadro gusto-olfattivo che esprime un bilanciamento esemplare tra struttura, vena alcolica, acidità e sapidità.
DOC Rossese di Dolceacqua Bricco Arcagna 2011 – Terre Bianche
Manto rosso granato molto luminoso. Il timbro olfattivo è dominato dalle note di frutti di bosco cui si legano i frutti di bosco in confettura, e note florali di rosa canina in un quadro che si arricchisce mano a mano di nuances di legno di sandalo, di chiodi di garofano, pepe nero, per virare quindi verso sentori iodati e salmastri e declinare, infine, lentamente verso sbuffi di ceralacca. Bocca di struttura tutt’altro che timida: il sorso porta in dote la freschezza del sapore, tannini delicati e ottimamente fusi nella struttura del vino ed una stuzzicante sapidità in un discreto equilibrio generale. Finale su note di frutta rossa.
Primitivo di Manduria ES 2013 – Gianfranco Fino
Rubino scuro e compatto e con una carica antocianica talmente forte da lasciare evidenti aloni colorati lungo le pareti del calice. Naso ricco e generoso con un accento alcoolico invadente; la silhouette olfattiva esordisce su note di frutta sotto spirito, confettura di prugne e mirtilli che annunciano l’ingresso di spezie dolci, le note balsamiche, l’anice, e le erbe aromatiche, per poi chiudere con un esplosione di liquirizia. La struttura è opulenta; la bocca ne svela il carattere morbido e sensuale che opera tuttavia in modo sinergico con la freschezza e con i tannini ben coesi nella trama gustativa. Finale di adeguata estensione e di piena rispondenza aromatica.
III° Impari Match
DOC Campi Flegrei Piedirosso Vigna delle Volpi 2013 – Agnanum vs. DOCG Sagrantino di Montefalco Pagliaro 2005 – Paolo Bea
La terza sfida è la sfida delle ‘eccezioni’. Entrambi i vini presentati, infatti, fanno eccezione alle classiche raffigurazioni con cui vengono descritte le rispettive tipologie: e cioè che i vini ottenuti da Piedirosso sono vini leggeri, snelli e di pronta beva e che, invece, il Sagrantino (una delle varietà di uva più tanniche al mondo) genera un vino opulento ed imponente e che richiede anni e l’uso del legno per essere ‘addomesticato’. Il Vigna delle Volpi è un cru aziendale da cui vengono ricavate in genere pochissime bottiglie (circa 600) che proviene da una piccola parte di una vigna storica di circa tre ettari, allevata in gran parte con il sistema della vecchia pergola puteolana. Tre ettari e mezzo strappati alla città di Napoli in cui sono piantati prevalentemente Piedirosso e Falanghina e poi altre varietà locali in uno scenario unico caratterizzato dai pendii scoscesi e sabbiosi di matrice vulcanica che si trovano a ridosso del parco naturale degli Astroni. Il Sagrantino di Montefalco Pagliaro proviene da un vigneto condotto attraverso le antichissime conoscenze e tradizioni vitivinicole sedimentatesi nella famiglia Bea nel corso dei secoli (i Bea producono vino sin dal 1500) e che contribuiscono a creare un vino unico nel suo genere anche per metodo di produzione. L’azienda infatti è uno degli antesignani in Italia dell’agricoltura biologica e dell’utilizzo dei metodi tradizionali in cantina e Giampiero Bea è il Presidente del Consorzio Vini Veri.
DOC Campi Flegrei Piedirosso Vigna delle Volpi 2013 Agnanum
Rubino compatto e luminoso. La trama olfattiva è empireumatica e scandita da un fondo di note tostate e di cenere cui si intrecciano note di geranio, ciliegia, macchia mediterranea e note speziate. Il palato è sostanzialmente in linea con l’assetto olfattivo anche se risulta per certi versi più ‘ruspante’ ed introverso caratterizzato da una discreta dotazione in acidità e da tannini ritmati e da note fumé che riempiono la bocca e rendono gradevolmente amarognola la chiusura del sorso.
DOCG Sagrantino di Montefalco Pagliaro 2005 – Paolo Bea
Manto granato ricco di luce. Naso suggestivo, raffinato e travolgente; impeccabile la modulazione declinata su note di succo di pomodoro, frutta matura, ciliegia nera, ma anche cenni iodati, note ferrose e spezie dolci. La bocca rivela ancora una notevole vitalità, l’intero patrimonio olfattivo si riconferma lungo un assaggio ricco di grazia e di una precisione straordinaria in cui opera un impalcatura acido-tannica mai invadente, di solare efficienza e funzionale ad un perfetto equilibrio generale. L’epilogo, semplicemente emozionante per lunghezza e articolazione, è uno sfoggio di classe ed è il culmine di una incalzante progressione che sfuma su toni speziati.
Molto interessante. Bella la recensione e l’idea della comparazione tra i vini. L’autore riesce nel difficile compito di trasferire su carta le diverse sensazioni della degustazione. Veramente complimenti: mi raccomando scriva ancora.
Francesco