Di Dario Buonfantino
Sono davvero tanti anni che villeggio ad Ischia ma soltanto negli ultimi sto iniziando a capire di cosa é fatta realmente quest’isola grazie ai racconti di chi ci vive da generazioni. Un’isola innanzitutto contadina e poi, soltanto dopo, di pescatori.
Ieri al tramonto, quasi per caso, ho provato a bussare alla porta di una cantina di Campagnano per provare qualche buon vino e curiosare in un mondo che conosco pochissimo ma che trovo indiscutibilmente affascinante; un buon vino, infatti, non è mai frutto di casualità ma è un’insieme di elementi naturali (terreno, acqua, umidità, altitudine, latitudine…) e di intervento umano (le braccia del viticoltore, i consigli dell’enologo…) che, fondendosi sapientemente, riescono talvolta a dar vita a sapori davvero raffinati.
Insomma, mi ha accolto con indescrivibile ospitalità Antonio Mazzella, un piccolo grande uomo di 70 anni dalla forma fisica invidiabile (di bassa statura e tonico come un ventenne), dalla grande tempra e dalla inimmaginabile saggezza. Un uomo che ama parlare, conoscere, farsi conoscere e che mi ha offerto uno spaccato della vita di un viticoltore appassionato che rispetta la terra (basti pensare che fissa le viti ai pali di legno soltanto con lacci di canapa o rametti flessibili per evitare poi di inquinare il terreno con plastica e porcherie varie) e che la coltiva con metodi antichi producendo uno dei vini migliori dell’isola e, secondo me, di tutti i Campi Flegrei. Basti pensare al bianco Vigna del lume. Ieri sera, dopo una verticale dei suoi vini prelibati, c’ho provato e gli ho chiesto se fosse stato possibile visitare la vigna e lui mi fa: “Guaglio’ volentieri ma ti ‘a scetá presto… ‘e ssei ja sta’ accá!”. Penso: “Queste sono occasioni che vanno prese al volo” e accetto volentieri coinvolgendo anche mio padre in questa passeggiata.
Passa la notte e suona la sveglia. Un caffè al volo, 3 biscotti mangiati all’impiedi e siamo già in auto e, dopo 10 minuti, incontriamo Antonio. Lungo la strada resto sedotto da quello che da anni considero lo squarcio panoramico più bello di tutto il Golfo di Napoli. Da Campagnano mi si para dinanzi un sole rosa che inizia timidamente a scaldare l’aria sorgendo alle spalle del Vesuvio. Il mio sguardo si perde tra gli scogli di Sant’Anna, il Castello Aragonese, l’isolotto di Vivara e poi Procida, Capo Miseno e Sua Maestà il Vesuvio che da lontano tutto abbraccia mentre una piccola barca solca per prima le acque di un caldo mare di fine agosto.
Si comincia. Antonio ci saluta e ci porta subito nella cantina dove invecchiano buona parte dei suoi nettari. Ci spiega l’importanza di essere affiancati da un bravo enologo per fare un buon vino. Ci dice che il suo, il prof. Luigi Moio, un giorno gli disse: “Antó, se vuoi fare un vino buono, tu pensa all’uva che io penso al vino“.
Dopo poco saliamo sul suo piccolo e sgarrupato furgoncino e ci inoltriamo su per una strada assai ripida. Quando l’asfalto cede il passo alla terra, solo allora parcheggiamo. Dopo aver aiutato Antonio a fare manovra in uno spazio davvero troppo angusto, lasciatogli da un vicino noncurante che ha provocato la sua repentina, netta e quasi indecifrabile ira, si calma e ci fa: “Iammunì!”.
Il sentiero é irto e scivoloso ma lui lo affronta con ai piedi dei sandali. Per noi, invece, scarpe da trekking e mani ben strette a delle corde ancorate sui lati di una parete a dir poco friabile. Dopo poco mi rendo conto di quanto sia difficoltoso l’accesso a questo vitigno per via dei suoi sentieri impervi e per cui bisogna essere dotati non solo di smisurata passione ma anche di un tocco di sana follia se lo si vuole coltivare. Come la definisce Antonio, qui si tratta di viticoltura eroic”. L’unica acqua a disposizione é quella che piove dall’alto. L’uva raccolta durante la vendemmia, che Antonio preferisce fare in un solo giorno con l’aiuto di circa 30 persone, viene caricata tutta su un piccolissimo carretto cingolato che deve necessariamente fare più viaggi. Si sale e si scende, si sale e si scende tra sentieri in aperta campagna finché non ci si para dinanzi lo spettacolo nello spettacolo: una vista mozzafiato dall’alto dell’insenatura che precede la Punta San Pancrazio e poi ancora vitigni in espansione verticale che sfruttano ogni fazzoletto di terra sfidando la forza di gravità.
Antonio ci spiega le immense difficoltà da affrontare quando le Istituzioni non fanno nulla per darti una mano e quando anche i concittadini isolani (che appella serenamente come “brutta razza”) non collaborano mettendo insieme le forze per portare in alto la Doc Ischia. Inoltre ci dice che: “Nisciun chhiù vo’ zappá ‘a terra” per cui, a momenti, teme di dover portare con sé i segreti di un lavoro fatto di tanti piccoli accorgimenti e che certo non si può tramandare in qualche mese. I figli, Nicola e Vera, hanno un ruolo fondamentale in cantina e per l’aspetto commerciale. Ma al di là dei tanti aneddoti che ci racconta è dietro il suo ripetere: “Dottó, je non so gghiuto a scola ma non so strunz…” che si nasconde tutta la verità su quest’uomo che é stato plasmato dalla terra e con lei e per lei vive rispettandola profondamente! E la terra rispetta lui regalandogli un’ottima uva Biancolella, dei fichi strepitosi e tanto altro ancora. Un uomo tutto d’un pezzo, saggio, che nel suo passato ha saputo cedere la responsabilità di alcuni passi importanti ai figli, che sa consigliare ma sa farsi da parte. Un uomo che sgrana gli occhi ed il cuore quando passeggia in quel terreno tanto impervio quanto spettacolare dove realizza se stesso in armonia con tutto il resto.
Ad un certo punto, decide di cogliere dei fichi e un po’ d’uva da tavola per regalarcela. Sale su un albero con una dimestichezza tale da ricordarmi a tratti l’uomo primitivo.
Nel silenzio di quel momento eravamo così vicini eppure così lontani perché provenienti da mondi completamente diversi. Lo guardo, lo ascolto, lo ammiro e un po’ lo invidio perché, chi, come me, vive in città, troppo spesso non ha quel necessario contatto con la Natura che da solo basterebbe a farti uomo. Vedevo da una parte mio padre e dall’altra Antonio! Quanto erano diversi, anche nell’aspetto, eppure quanto erano simili perché ad entrambi la vita, attraverso percorsi differenti, aveva insegnato le stesse cose. Due uomini fatti! Così tosti eppure così teneri. Si, perché Antonio si é improvvisamente “sciolto” quando, per un attimo, ha parlato della moglie che non gode più di ottima salute mentre gli occhi gli si gonfiavano di lacrime.
Certe passeggiate cominciate così, per caso, finiscono con l’essere già parte dei tuoi ricordi diventando quelle esperienze che ti insegnano più di tanti libri. Non ho ringraziato abbastanza Antonio che si è congedato con un: “Scusate le chiacchiere!” perché purtroppo a volte freno le mie emozioni ma non saprei ringraziarlo mai abbastanza per avermi concesso di entrare per qualche ora nel suo piccolo, semplice, grande mondo e gli auguro, dentro di me, quella pioggia di fine stagione che più volte ha invocato per un’ottima annata.
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