Di Donatella Bernabò Silorata, The Wine Insider
Circa un anno fa abbiamo raccontato su questo sito la prima cena nomade di Datè, gli esperimenti di cucina temporanea in case di architetti e designer. Poteva sembrare un qualcosa di effimero, l’ennesima moda stravagante, un divertissement del momento. Invece, un anno dopo, il format ideato da Fabiana Longo con la collaborazione di una squadra affiatata che vede insieme cuochi, grafici, architetti, designer e fotografi, continua. Siamo allora tornati a provare. L’appuntamento del 15 febbraio era presentato in calendario come un “Datè speciale”. E lo è stato. L’indirizzo comunicato non anticipava molto. Arrivati al numero civico indicato, ci siamo trovati davanti non una casa, ma una chiesa: la chiesa di Santa Caterina da Siena, capolavoro del barocco napoletano, sede della Fondazione di Musica Antica Pietà dei Turchini. Entriamo in punta di piedi. Inizia il viaggio Datè per trenta commensali ignari di tutto. La navata ci accoglie col suo sfarzo di ori e stucchi. Sugli altari delle cappelle laterali lo chef Datè, Carlo Olivari, prepara un’acqua santa che è un brodetto di cozze. Sull’altare maggiore è pronto il vino: nei calici c’è il Terre Cerase di Villa Matilde. Silenzio, inizia la performance di Maria Luisa Firpo, da sempre voce narrante di Datè, accompagnata questa volta da Diego Nuzzo. Ma siamo in un luogo di musica e a ricordarcelo arriva il duo Ausonia, Gennaro Cardaropoli e Piercarmine Garzillo, violino e piano. La cena viene finalmente servita nella sacrestia al lume fioco delle candele. Un’unica lunga tavola per 30 persone, è stata apparecchiata da una decina di designer. Il mio posto è una cornice barocca riempita di acini d’uva, bella installazione di Carla Giusti. Il menu gioca col sacro e il profano: millefoglie di ostie per iniziare, mezzi paccheri alla puttanesca redenta (in bianco con filetto di seppia piastrata), il vitello d’oro. Nei bicchieri il Fiano d’Avellino Docg delle Tenute d’Altavilla di Villa Matilde e il Falerno del Massico Rosso, vino emblema dell’azienda casertana. Per il dessert ci alziamo, percorriamo gli ambienti del convento, saliamo al piano superiore fino a raggiungere il coro ligneo del 1700 che si affaccia sulla navata. Emozione pura. Mangiamo seduti dove un tempo si sedevano le monache a cantare: ile flottante con crema calda alla vaniglia bourbon del Madagascar e nel bicchiere l’Eleusi, passito da uve falanghina, di Villa Matilde. Abbiamo cenato, ascoltato, scoperto, osservato. E dopo un anno possiamo ribadirlo: le cene Datè non sono cene clandestine (anche se ne mutuano alcune modalità di comunicazione); non sono supper club o pop up restaurant. Sono molto di più, un mix di gastronomia nomade, teatro, arte, design, viaggio. Sono contenitori mobili e nomadi che si aprono e accolgono, di viaggio in viaggio, nuove esperienze.
Foto di Francesco Semmola
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