Di Mauro Illiano Viaggiare in Africa, si sa, porta con se una serie di conseguenze ineluttabili. Chi ha attraversato il cielo o il mare per giungere a quelle aride sponde riconoscerà la veridicità di quanto sto per sentenziare. L’uomo la cui gamba è talmente scaltra e il cui cuore è veramente pronto sino a sognar per poi approdar in terra africana, firma un patto con la propria anima, rinunciando irrimediabilmente al gusto dell’agio urbano in cambio di vedute e sensazioni primordiali mai saggiate innanzi. Tuttavia, ciò non accade a tutti; solo a coloro veramente pronti, l’anima concede la sua offerta. Tale condizione, ahimè, non è verificabile sino all’atto di trovarsi dinanzi al proprio destino, per cui all’uomo non è data altra soluzione se non quella di mettersi alla prova fino a che ciò accada. L’opera di rivelazione di quanto immenso è offerto in cambio delle opulente rinunce sarebbe troppo vasta per poter essere contenuta in queste righe. Vi descriverò, nel poco tempo che i vostri occhi mi concederebbero in dono, solo l’ambito afferente il gusto, che sommamente caro è ai miei più assidui lettori. Succede tutto dopo che la prima porta si chiude. Alle spalle la vita di sempre, fatta di abitudini alimentari basate sul vizio, sulle preferenze, i grandi sapori italici. Dinanzi a sé l’ignoto, la speranza di ritrovare in fatti ciò che di più accattivante l’occhio ha già scorto tra i capitoli di un libro, o, meglio ancora, ciò che la memoria ha stipato dai mille racconti uditi negli anni addietro. Ma la realtà non si prevede, essa semplicemente accade… Così può ben darsi che dopo un incontro di culture, un vecchio islamico si offra di accompagnarvi di suo passo ad uno dei più rinomati cucinatori di carne del Souk Semmarine (quello del cuoio). La mente vaga alla ricerca di un’immagine convenzionale che si sgretola immediatamente nell’atto di incontrare la realtà. Piastrelle bianche unte da un tempo che non si può contare, lo spazio di uno o due metri quadri riempiti da seggiole instabili fatte di legno vetusto, un frigo senza logo ammassato in un angolo, una bilancia a pesi d’ottone, ed una bombola di gas messa proprio su uno dei due ripiani destinati a far da tavola agli avventori. Un ambiente ospitabile da non più di cinque o sei uomini, le cui schiene, stando seduti uno di spalle all’altro, si incontrano a mezz’altezza. In fondo al vertice destro, entrando dal retrobottega, il regno del cuoco: un rozzo fornello posato su un blocco di pietra, con fiamme perennemente accese e padelle incrostate dagli anni. Nell’aria il profumo pungente di tajine, e l’inconfondibile mix di spezie che sembrano poter trasmettere la vivacità dei propri colori anche al naso. La visione del piatto, una volta giunto a compimento, così come di ciò che lo circonda, non trova alcun punto di riferimento nella riserva di memoria di ognuno di noi, in quanto mai prima di quel momento avevamo assistito a qualcosa di così logoro, trasandato eppure succulento al tempo stesso. Pochi istanti, quelli necessari affinché la brace sia pronta, ed ecco giungere shish kebab di agnello, nient’altro che unti, grassi e tremendamente invitanti pezzi di carne, trafitti da spiedini roventi. Poi null’altro. Ma la gola non sazia avrebbe e come di che gioire in terra Maghreb. Ogni ora ha un ventaglio di opportunità unico. Al mattino, quando il sole stenta a sorgere ed i credenti si radunano per la prima preghiera, donne corpulente albergano i più impensabili angoli delle piazze. Con loro custodiscono termos bollenti contenenti caffè aromatizzato al cardamomo. Pochi passi più in la va in scena l’asta al ribasso dei venditori di succo d’arancia. Il latte di mucca, stante la quasi assenza di questi animali negli ambienti predesertici, è un alimento ai limiti del circuito alimentativo. Il sole sorge, ed insieme ad esso muta il quadro gastronomico della città, così come le ambizioni della lingua, che lentamente abbandona il ricordo dei sapori di casa per assuefarsi a nuove tentazioni. Come quella esercitata dei venditori di olive, veri gioiellieri della natura, i cui carretti ornati delle più belle gemme salmastre fanno invidia al resto dei venditori del mercato. O, forse, coloro avvezzi ai veri strappi, potrebbero rimaner vittima dei tanti e tanti ambulanti di frutta secca, pronti a barattare mandorle e pistacchi in cambio di pochi dirham. E cosa dire, poi, dei venditori di dolciumi, perennemente assillati dalle api, che sembrano rivendicare la paternità dei litri di miele sparsi in giro per la città… Ed altri, ed altri ancora sarebbero i contendenti al palato meritevoli di un cenno. Non fosse altro che il tempo sta per scadere. E allora non posso non citare i veri eroi di strada, i tenenti della piazza più bella al mondo, rappresentanti della cultura gastronomica africana e mondiale. Tale è il ruolo dei ristoratori cantastorie, che come ragni ogni sera tessono la propria ragnatela alla ricerca di gole da catturare, per poi disfarla prima dell’alba, sazi e sfatti dall’universo che li ha attraversati. In lontananza si scorgono nuvole di fumo che dal bianco volge al grigio, poi è la volta del naso, che sembra attratto da sentori agrodolci e pungenti al tempo stesso.. il corpo si avvicina al campo di battaglia, e quando oramai v’è vicino, seppur cambiasse idea non potrebbe oramai sottrarsi alla legge del ragno. Decine, centinaia di incantatori saltano letteralmente sul viandante, ognuno con la propria storia, ognuno con i suoi ingredienti, ognuno pronto a giurare che da lui, e solo da lui, l’altrui gola troverebbe la sua piena affermazione. Così inizia il sottile gioco dell’altalena, la mente sembra perdere il controllo a vantaggio della gola, che impotente subisce il richiamo dei sapori e dei profumi. Dura in tutto dieci minuti, poi il naso fa la sua scelta. Zafferano, curcuma, paprica dolce o piccante, curry marocchino, sumac, za’atar, semola, peperoni gialli, verdi e rossi, patate, melenzane, carote, lenticchie, fiumi di olio da frittura, tanto per cominciare. Carni bianche o di montone, pepe nero, pesci, lumache, pecore intere, per proseguire. Succhi di agrume, pompelmi a fette, latti di mandorla, noci e nocciole, leccornie dolci o salate per metter fine alla fame. Poi, nel tremore tipico di fine pasto, ancora lo spazio per un bicchiere pieno di un’acqua sporcata dal terriccio di una pianta che cresce rigogliosa in queste terre, il più buon tè alla menta di un’intera vita. Questa è l’allegoria di strada, queste le possibili storie da vivere nei vicoli ciechi di una Marrakech in costante tumulto. Poi c’è il Mamounia, ma quella è una storia a parte… Foto di Mauro Illiano e Ivan Marchitiello
come sempre una descrizione fantastica, intrigante e meravigliosa