Di Barbara Brandoli
Località Vadiaperti e Toppole in quel di Montefredane, una collinetta a 400 mt sul livello del mare nei pressi di Avellino dove il fiano ubbidisce a se stesso e si arrende alla sua stessa essenza. Lo sa bene Raffele Troisi che proprio in quel luogo possiede e accudisce le vigne dalle quali nasce questo straordinario vino che non assomiglia a nessuno, fa storia a sé nel panorama dei fiano avellinesi. Apro oggi una bottiglia di Vadiaperti 2004, ne verso un po’ in un calice ampio, mi fermo. Ne ho troppo rispetto per assaggiarlo subito, conservo questa bottiglia nella mia cantina da alcuni anni, un dono che va restituito con la stessa premura.
In silenzio chiudo gli occhi, ascolto tutte le sensazioni che provengono dal bicchiere prima e da me stessa poi, medito, accolgo, decodifico. Questo non è un vino, assomiglia molto di più all’espressione estatica della presenza divina nella materia. Possiede qualcosa di irraggiungibile, indicibile, un vino che non si palesa e ti affranca subito la sensazione che prima di scoprire il suo enigma, tu debba ritrovare te stesso. Una Via Crucis di profumi partendo dagli agrumi, buccia di limone e di arancia, la nocciola che arriva e reclama la sua presenza, erbe di montagna ad alimentare la fantasia, menta, muschio, sottobosco, roccia e miele di castagno a volerci ingannare, trasalire le aspettative, ribadire elegantemente la sua diversità. Un vino che non stanca, i rimandi olfattivi si susseguono in un alternarsi di sottili finezze che giocano a sottrarsi e a emergere come nel disvelarsi di un’identità forte e sicura di sé, al punto di raccontarsi sottoforma di note olfattive e musicali, tattili ed eteree. In bocca, il fiano di Vadiaperti, è una linea dritta al centro della lingua, l’alcol è impercettibile, perfettamente integrato, un vino finemente magro che trova però la sua spazialità pretendendo una bocca attenta, dedicata, sottomessa. Il liquido arriva in punta di piedi, non si esibisce e rimane fedele a se stesso anche quando ti sciabola addosso un’acidità e una mineralità tali che la mente dimentica per un attimo che stiamo parlando di un vino del Sud. Una bevibilità stupefacente, la salivazione aumenta e non s’arresta. Al palato ora si fa spazio una leggera dolcezza, dopo tanto rigore, un’oasi dove riposarsi prima del prossimo sorso, sulla soglia di quel desiderio al quale tenti inutilmente di resistere. Un susseguirsi di virtù, una pulizia espressiva che ne esalta il carattere autentico: nessuna debolezza, nessuna nota decadente. E più sogni e più questo fiano ti fa sentire la radicalità del terreno dove cresce, più fantastichi e più ti restituisce il presente nell’attimo esatto dove il tempo è andato in pausa e tu hai giusto quella mezz’ora per interpretarlo. Una mezz’ora di vita nella quale ognuno di noi ha l’opportunità di entrare in contatto con in proprio corpo, avvicinare il calice alle labbra e avvertire la sensazione di assenza di parole, l’evaporare dei pensieri dai quali sì intravede appena in controluce, un labile ma sincero disincanto.
Il Fiano di Avellino di Vadiaperti 2004 non è un vino, è una profezia.
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