Se un Dio esiste, questi ha creato l’India. Se d’un sol posto potessi dar consiglio a chi del Mondo vuol venire a conoscenza, di certo indicherei la Terra del Trimurti. Un luogo straordinario ed inimmaginabile, in cui ogni uomo può riscoprire l’esser uno tra milioni, e nessuno tra tutti.
Un moto perenne agita le giornate indiane, un incessante frastuono accompagna ogni singolo istante, eppure il più potente silenzio alberga in eremi della medesima porzione di Mondo. Questa è l’India: contraddizione.
Uomini, scimmie, cammelli, elefanti e mucche dividono minuscole case divise da muri invisibili. E bambini, e cani, ed anziani occupano gli stessi marciapiedi, dai quali, accovacciati, dimostrano la medesima saggezza nell’attendere che gli eventi accadano. I loro occhi diventano, così, contenitori di visioni. In scena va la Vita, quella dei venditori di cocco, e dei guidatori di risciò, quella degli spazzini statali e delle vedove bambine, quella dei sultani e quella dei moribondi, tra i quali nulla v’è in comune se non l’atto dell’accettazione del proprio Dharma.
Tutto, qui, ha un preciso limite di inizio e fine, ed ogni intervallo corrisponde esattamente alla dimensione che le sacre scritture del Ramayana e del Mahabharata hanno inteso conferire ad ogni classe sociale.
Così, anche l’atto del cibarsi si delinea in base all’appartenenza ad una o ad un’altra Casta.
In quei mercati come in quei campi, nascoste o esposte al sole, esistono pietanze stupefacenti, in cui le più straordinarie qualità di riso incontrano verdure provenienti dalle regioni del Kerala o dell’Orissa, portate ottenute con Arbi, Brinjal e Guda (vegetali da cucinare) mescolate al prezioso Curry o al proverbiale Zafferano d’India. Le donne che vestono Sari di seta conoscono bene il sapore di Mathi e Jaleb (biscotti fatti in casa e spesso ricoperti di sciroppo), ed i loro mariti hanno il pregio di sfamarsi di Faluda (tagliolini aromatizzati con zafferano ed acqua di rose), concludendo i loro pasti con i più pregiati Tè di Assam. E’ il mondo dei Brahamini (sacerdoti e intellettuali)
C’è poi chi, da un gradino più in basso, si consola nel proprio limbo. Uomini che hanno visto apporre il Bindi a più di una moglie, che mangiano Bhaji (frittelle farcite e molto speziate) e Gulab Jamun (polpette con farina, burro, yogurt e mandorle), consumano Kulfi (gelati) a fine pasto, e si concedono il sapore unico del Fanny (distillato di cocco o acagiù). E’ la dimensione dei Khatriya (guerrieri)
Oltre il confine dei privilegiati, vive una schiera di individui medio-tenenti. Sono coloro che consumano pasti dai Dharba (ristoranti di strada). Coloro che pasteggiano a base di riso di seconda fascia, mescolato a Chutney (mistura di spezie piccanti). Coloro che, quando va male, sostituiscono con Lassi (yogurt) e Kheer (budino di riso molle) il vero e proprio pasto. Quelli del Chai (tè) più scadente. E’ la casta dei Vaishya (mercanti)
Lentamente si giunge alle anime più adombrate. Esseri le cui schiene si drizzano solo per il tempo di un pasto frugale, e le cui menti non hanno le energie per pensare a cosa stanno per mettere sotto i denti. Uomini che si sfamano di Roti e Chapati (pane schiacciato) sulle quali spalmano Chaat (mistura di frutta e verdura piccante) per dare un sapore al nulla. Di tanto in tanto si concedono una zuppa di Dhal (legumi), e bevono Urak (distillato di contrabbando) per dimenticare. E’ l’universo dei Sudra (contadini).
V’è poi l’abisso. Una pletore di individui disonorati eppure incolpevoli vaga dannosamente per le infuocate vie del sub-continente indiano. E’ gente che vorrebbe mangiare, ma a malapena si sfama ogni giorno. Così, il pasto per loro è ricerca. Lo scarto di un mercante in cambio di una lustrata di scarpe, una pallottola di Paan (digestivo composto da foglie di betel da masticare e sputare) offerta dal guardiano di un Mandir (Tempio Indù), il ratto dei frutti di un albero sporgente da una villa fuori dal centro. Tutto questo per sopravvivere, certo, ma soprattutto per perpetuare l’Izzat (l’arte del salvare la faccia). E’ il limbo dei Dalit e degli Hijira (intoccabili ed asessuati).
E’ così il film dell’India, un tutto che si fa in cinque, e poi in milioni. Figli di Divinità ancestrali e figli di Divinità minori si incontrano ogni giorno sui gradini dei Ghat per rendere il proprio omaggio al sole che sorge e tramonta. E quando il cielo è più accattivante, e quando il fiume sacro si fa di sangue, il profumo dei manghi si mescola alla scia di incenso lasciata dai Sacerdoti del fuoco. Ognuno segue la sua preghiera e coltiva il proprio Karma, ognuno prende coscienza del suo tempo. E, per un solo istante, è dato a tutti gioire, poiché ognuno, qualsiasi sia la sua casta, è cosciente che verrà il tempo, in un’altra vita, in cui le parti si invertiranno: l’uno si mescolerà al tutto, ed il tutto sarà uno.
lEGGENDOTI,OLTRE A PORTARCI IN VIAGGIO IN LUOGHI FANTASTICI, SI HA LA SENSAZIONE DI DEGUSTARE I CIBI CHE DESCRIVI. MARISA
Dovresti andarci un giorno..
Grazie dei complimenti