Di Luca Massimo Bolondi, Sommelier Ais Napoli
“Per anni aveva vissuto come chi sogna: guardare senza vedere, ascoltare senza udire, dimenticava tutto o quasi tutto…” (Funes, o della memoria, in: Finzioni). Jorge Luis Borges morì cieco, 46 anni dopo la pubblicazione di Finzioni. “Sono cieco e ignorante, ma intuisco che sono molte le strade.” (La Rosa Infinita, in: Finzioni). Come cieco morì il padre di lui, il nonno, lo zio. La madre e la sorella provarono invece l’umiliazione del carcere, nel periodo peronista successivo all’uscita del libro. Chi crede alla casualità della vita difficilmente potrà comprendere l’intimo legame che unisce un poco di conoscenza letteraria al poco di esperienza del mondo del vino all’ancor meno dell’evento di una cena in carcere, da sommelier, da libero cittadino. Quindi poco potrà apprezzare queste quattro umili e brevi note.
Mai visitato un penitenziario? Nella parola ecco già il succo: luogo di pena. Bussi, vieni osservato dall’interno, si apre una porta massiccia (si capisce!), ti presenti a un poliziotto di guardia mostrando le credenziali e lo scopo del tuo ingresso, la qual cosa è facile se sei in un elenco di visitatori attesi, posi le cose non ammesse dal protocollo di sicurezza e, se passi l’esame, la porta si chiude alle tue spalle sul mondo quotidiano e comincia un’altra cosa. Se riesci a posare nella busta non solo il cellulare e i cavatappi di riserva (già uno è un privilegio concesso al sommelier lì per servizio) ma anche i pregiudizi, allora entri libero da orpelli e tentazioni. Ecco tirata la prima invisibile riga tra dentro e fuori. Da quel momento ogni cosa che accade, ogni gesto intorno a te, assumono un senso speciale perché sei in un mondo speciale. Ogni parola che pronunci, ogni gesto che fai avranno un senso speciale, perché turberanno un ambiente di eventi resi banali da una eterna quotidiana ripetizione, ma molto diversi dal tuo usuale, da cui un iniziale senso di spiazzamento, un bisogno di rimettere te e le cose a registro, per capire e farsi capire. Le conseguenze delle frasi, l’impatto e il senso dei gesti del tuo corpo siano misurati e attenti, siano pensati. E se ti capita di partecipare a un momento di apertura all’esterno e insieme di chiusura di un corso di rieducazione, allora benvenuto in un evento raro come la schiusa delle uova di tartaruga su una spiaggia isolata, per te solo, momento di cui far tesoro per la vita.
Nel carcere femminile, un corso di cucina. Tenuto da due chef veri (Antonio Del Sole, nel nome un destino, e Agostino Malapena, nel nome un riscatto, dal ristorante La Tortuga di Castelvolturno). Antonio, Agostino e il loro staff, qualità che brillano nell’ombra. Antonio trascinatore, capace di unire la severa disciplina necessaria ai fornelli con una grande umanità. Antonio che seleziona le partecipanti al progetto-corso per il terzo anno di fila, come gli ingredienti giusti per una preparazione di reinserimento, che riesce a sciogliere a corso lento la diffidenza figlia della durezza del nulla quotidiano, Antonio che amalgama con piglio deciso le capacità e le volontà, che diffonde profumo di esperienza lievitata infornata e ben cotta, ecco qui il quasimiracolo di detenute diplomate aiuto chef. Quasi un opera di San Gennaro, d’altronde martire a pochi passi da questo carcere, ex convento, opera che scioglie, sublima e finalizza.
Alla serata conclusiva del corso sono presenti le autorità ministeriali, la dirigente del reclusorio e gli operatori che a vario titolo hanno sostenuto e reso possibile tutto questo. Le procedure della burocrazia , le regole dell’amministrazione carceraria e i protocolli di sicurezza, sollecitate dalla buona volontà, dimostrano di poter accogliere le istanze del lavoro e attraverso di esso la prospettiva del reinserimento al termine della pena. Sei dentro al sistema carcere, sommelier, e stasera sei chiamato a portare le usuali attività del Gruppo di Servizi a confronto con il Gruppo delle Lazzarelle, così si definiscono le ospiti della struttura di Pozzuoli. La squadra di servizio di stasera si arricchisce di un elemento imprevisto, una aspirante sommelier che porta al collo come in un serissimo gioco il tastevin AIS dono del Delegato di Napoli. Chiamiamola A., con l’iniziale del suo nome, non per vergogna ma per rispetto. A. lavora con il gruppo, stasera, ma desidera poter frequentare un corso di sommelier e poter esercitare quando tornerà a casa. A. mostra una volontà di riscatto che se la mangia viva, un desiderio profondo di punto-e-a-capo, di capitolo da chiudere e nuovo capitolo da aprire, senza errori. Accenna agli eventi che l’hanno portata lì, ma con distacco. Stasera lavora con attenzione ed entusiasmo. Ecco tirata un’altra riga tra dentro e fuori, tra prima e dopo. Nel giardino interno, dove si è allestita la cena, soffia una lieve aria di libertà. Le corsiste in divisa da chef, i convitati a loro agio, la cerimonia di consegna dei diplomi, i commis e i sommelier tra i tavoli, togli il sonoro e vivrai le immagini di un evento normale. Le parole in certi casi possono essere pietre.
Durante i preparativi A. espone un problema che la preoccupa: la sua religione le impone di astenersi dall’alcol. Come potrebbe un sommelier esercitare senza degustare il vino? Ti viene di getto risponderle che il Corano parla di non bere, quindi non proibisce di degustare senza deglutire, e che la prova del vino può essere un’affermazione di fede in cui lei è a contatto con la tentazione ma non le cede, e che fronteggiare serenamente il pericolo dimostra forza d’animo assai più che tenercisi lontani. Avrai per risposta un sorriso enigmatico, non saprai mai se cela la soddisfazione o il dubbio.
Quando finisce il servizio torni coi colleghi dal piantone e dalla busta gialla ricompaiono i simboli della libertà di parola e di movimento, te ne riappropri come di oggetti in prestito. Esci e porti con te qualcosa di prezioso e invisibile, che nessuno ti potrà mai rubare.
Durante il viaggio di ritorno riascolti ad un programma radio notturno “Candyman”, un blues di Gary Davis del lontano passato, e il conduttore ricorda il paradosso del titolo “There was a time when I was blind” a un album di un cantore cieco dalla nascita. Poi dicono che le cose capitano per caso.
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