Di Luca Massimo Bolondi
Che cos’è la qualità? Se la domanda ti viene posta da un intervistatore per conto di un periodico di gossip o di un’autorevole rivista socio-politico-economica, allora puoi cimentarti in una frase storica, oppure in un motto d’arguzia o in una densa banalità. Dando risposte semplici a domanda semplice stai al gioco e ti poni al livello dell’intervistatore. Con buona pace per l’occasione perduta.
Cosa diversa è se il quesito lo poni a te stesso e non ti accontenti di una soluzione riduttiva a un problema di valore. Giocare a nascondino da soli non è poi così divertente. Eppoi, chi si contenta gode, ma gli altri lo umiliano.
Gentile lettore, se sei sommelier o qualcosa di simile, puoi aver trovato la voce “qualità” in una scheda di degustazione, dopo averne studiato la succinta spiegazione in un corso e su un libro di testo. Se condividi con chi scrive il vizio di analizzare criticamente le regole del gioco, a qualunque gioco si giochi; abbiamo cominciato a chiederci perché il questionario è così, se le risposte previste siano soddisfacenti, e soprattutto se siano esaustive visto che ci viene richiesto un giudizio. Ci è bastato considerare “la qualità” come da definizione del manuale e misurarla nelle cinque categorie scalari cinque? Non è venuta anche a te la sensazione di avere aperto una porta su uno spazio ben più vasto di quello che appariva e non ti è nato il desiderio di esplorarne almeno una parte?
A cospetto del giocattolo propongo, come bimbi curiosi, di: smontarlo per vedere come è fatto e cosa c’è dentro; provare a usarlo in modo non previsto dalle istruzioni per l’uso; giocarci un poco ora e tornare a giocarci ancora, se ci è piaciuto, così non ci annoiamo.
Cominciamo non dal giocattolo da smontare ma dal cacciavite: gli attrezzi classici, ovvero le analisi condotte dai cultori della materia, sono efficienti ma non bastano; le nostre manine, ovvero il mio ragionamento in questa sede e il tuo di lettore e interlocutore sul blog, possono aggiungere qualcosa; a questo proposito sei invitato a metterci del tuo così il gioco è più interessante; attrezzi e manine, insieme, possono fare ottimo danno.
Cominciamo.
La qualità è un fatto o un processo?
Peccato che anche gli autorevoli autori in cui mi sono imbattuto sinora abbiano espresso concetti di qualità chiusi, intesi come obiettivi da perseguire nel tempo in un sistema. Merli, il padre della Qualità Totale italiana, parla di qualità-obiettivo cui sono finalizzate le capacità del processo di produzione e dei suoi attori. D’altra parte il problema della qualità è nato nell’industria, figlio di un approccio prestazionale, generatore di organizzazione e di protocolli di controllo interno. Un passo avanti ce lo offre fin dagli anni ‘40 Maslow, sociologo, l’autore dell’omonima piramide dei bisogni personali, padre della qualità come elevazione verticale. In due parole: abbiamo una qualità di base e una qualità elettiva. La qualità di base è legata alla soddisfazione di bisogni primari (tipo mangiare, bere, ripararsi da freddo e intemperie…), la qualità elettiva è fatta di aspirazioni e realizzazioni, ciò cui aspiriamo una volta soddisfatti i suddetti. Secondo Maslow gli stadi elettivi una volta raggiunti stabilmente diventano a loro volta primari. La qualità elettiva quindi cresce sempre e dovrebbe portarci a perseguire l’eccellenza, in una corsa che vede Achille inseguire una tartaruga da lui stesso creata e spinta sempre un poco oltre il punto raggiunto. Un esempio nel campo del vino a partire da una annosa questione: è buono il vino del contadino? Mi è stato chiesto recentemente di valutare la qualità di una bottiglia di coda di volpe non etichettata, prodotta per una comunità di amici e parenti. Ho provato ad applicare la scheda di degustazione trattando il prodotto come “vino bianco” e il risultato è stato un’impietosa denigrazione della povertà all’occhio e al naso in confronto con il biondo mondo degli etichettati. Ma avevo la sensazione di stare commettendo un peccato di superbia. È bastato basare la valutazione sulla categoria “vino bianco autoprodotto” e il risultato è diametralmente mutato: la leggera velatura risulta accettabile, i profumi lievi sono già un successo, la qualità è fine. Perché quel vino semplice ma ben fatto è come la ninfa plebea, non concorre a missuniverso però nel rione quando passa fischiano i consensi.
Esiste una qualità assoluta?
Pirsig racconta come la ricerca della qualità come assoluto logico possa condurre a uno stato di follia. Per fortuna (sua) un’esperienza reversibile. Un balzo felino in avanti ce lo offrono Bateson e Beer, due menti fuor di accademia che hanno spaziato dalla psicologia alla cibernetica, i quali, seppur da punti di partenza molto diversi, convergono sul concetto che l’attributo di valore è uno stato evolutivo della mente, in continua sintesi tra soggetto, collettività e natura. La qualità come valore assoluto non esiste, semplicemente perché è un valore sociale. Per meglio dire, la qualità è un valore contestualizzato, relativo al luogo e al tempo. Dove siamo, a parlare di qualità? Perché un conto è il sistema di valori di casa nostra e un altro ne è quello anglosassone o cinese o islamico. Altro conto ancora è parlare di qualità oggi, confrontarci con che cosa era ieri e ritrovarci a parlarne ancora domani, con scale di valore diverse perché figlie del proprio momento. Un altro esempio nel campo del vino: la leggerezza alcolica, che qui e ora (Italia, 2010) si sta affermando come un valore, all’inizio del secolo nello stesso luogo era un disvalore. Pochi anni fa, gentili interlocutori, quando ad avere meno di tredici gradi eri un vinello da sciacquar piatti. La qualità assoluta non esiste, poichè è frutto di un sistema di analisi e giudizi di valore in parte oggettivi (il lato “tecnico”, misurabile scientificamente) in parte soggettivi (il lato “poetico”, la cui misura e descrizione è resa dalle capacità creative e affettive dell’analista) che si incontrano in una sintesi e che hanno un senso solo se vengono comunicati e condivisi tra persone. La qualità, quindi, ha valore solo se entra in un dialogo e arricchisce i dialoganti.
Come si rapporta la qualità alla ricchezza?
Accade che una crisi economica porti con se una opportunità necessaria: ripensare ai consumi individuali e familiari (per quel che resta della famiglia), in modo da non lasciarsi scivolare verso il basso ma trovare un sentiero su un crinale diverso. Scivolare in basso significa accettare passivamente la diminuzione della ricchezza personale e contrarre i consumi senza modificarli, da cui la ricerca del mero basso prezzo delle cose (il cibo, il vestire, i servizi e tutto l’apparato della vita sociale), da cui una inevitabile perdita di qualità della vita. Di contro, trovare un cammino di miglioramento in regime di riduzione delle risorse significa trarre frutto da un investimento culturale. Se è vero che la vita di ciascuno è un cantiere, una costruzione continua piena di sorprese e di sfide, vien da dire che senza un progetto necessariamente il cantiere non alzerà un edificio ma al più crescerà come un deposito disordinato di cianfrusaglia. Traduzione in lingua di vicolo: se dimagrisce il mio bilancio, vuol dire che posso dimagrire anch’io consumando meno ma meglio, e non solo la salute ci guadagnerà ma questa mia scelta mi renderà più leggero, adattabile, attento. Viene l’inverno e l’ermellino non trova cibo facile, economizza energia, dorme di più e si accoppia di rado, ma è in questo periodo che cambia livrea e mostra una morbida pelliccia bianca picchiettata di goccine nere, tanto bella che i re della terra ambiscono ad ornarsene come uno dei simboli della regalità stessa. Tornando al vino, ecco tra i segni della democrazia illuminarsi l’insegna del “bere bene low cost”, ovvero il perseguimento di finezza, equilibrio e armonia in bottiglie accessibili a molti. Queste etichette rappresentano una occasione di educazione al gusto che non mi dispiace punto. Signora qualità, noto con soddisfazione che da buona nobile non abbiente (e non decaduta!) ha dismesso i panni glamour dell’eccellenza per vestire un’eleganza più sobria, di stoffe ottime e taglio sulla persona, senza spendere una cifra in nomi. Quell’eleganza alla Lord Brummel, che consiste nel farsi ammirare senza farsi notare…
Piccola bibliografia del caso:
Bateson Gregory, “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi 2000
Beer Stafford, “Principi cibernetici di organizzazione”, ISEDI 1990
Maslow Abraham, “Verso una psicologia dell’essere”, Astrolabio 1971
Merli Giorgio, “Total Qualità Management”, ISEDI 1982
Pirsig Robert, “Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”, Adelphi 1978
Molto interessante, arguto e divertente soprattutto per l’inatteso taglio multidisciplinare. Attendo con ansia il prossimo saggio scellerato e lancio un invito o meglio una sfida ad affrontare la ‘complessità’…
Che cos’è la complessità? In matematica è una caratteristica di un sistema il cui comportamento globale non può essere determinato dalla somma dei comportamenti delle singole variabili, a causa del numero troppo elevato di queste, e il cui studio necessita di un modello semplificato.
Dunque la complessità richiede semplificazione a discapito della comprensione dell’evoluzione continua, del cambiamento incessante, del dialogo intersistemico, dei fenomeni residuali, del disordine. Non c’è una complessità ma tante complessità e molteplici e transdisciplinari sono anche gli approcci metodologici ed epistemologici che ne fanno un oggetto d’analisi sottendendo una relazione al contempo di complementarità e di antagonismo logico fra ordine, disordine e organizzazione. To be continued…
gentile phyllis, lei stuzzica! gradirei conoscere l’opinione di franco de luca in proposito (sia sulla qualità, sia sulla complessità) e accetto la sfida, da non matematico bensì da semplice appassionato (peggio di un bouvard&pecuchet di flaubertiana memoria). grazie per le lusinghe, a buon rendere…