Di Franco De Luca

a-good-time-was-had-by.jpgCi sono città che nascondono numerosi segreti. Città antiche, come ad esempio Barcellona, in cui ogni pietra ha la sua storia da raccontare. Prendi la cattedrale di Santa Maria del Mar, costruita dalla comunità degli operatori del porto, gente fedele e forzuta la cui attività consisteva nello scaricare le navi mercantili in mare aperto. Barcellona, infatti, nel medioevo non aveva il porto pur essendo uno snodo fondamentale per i commerci del mediterraneo ed i bastimenti carichi di merce di ogni tipo erano costretti a rimanere a largo ed essere lì svuotate, in qualsiasi condizione di mare, con un sistema di piccoli gozzi disposti in fila a far da ponte di collegamento sull’acqua. Una procedura impensabile in qualsiasi altro posto del mondo ma non in questa operosa città. Questi uomini audaci si chiamavano Bastaixos e la pausa di lavoro (si fa per dire) la occupavano a trasportare enormi massi da una cava a circa 20Km dalla città fino al luogo della costruzione dove l’architetto Berenguer de Montagut metteva a disposizione la sua arte e dirigeva i lavori. Una cattedrale bellissima, eccezionale esempio di gotico in Spagna, altissima e tetra, costruita senza il sostegno economico del Re né delle Signorie locali ma solo grazie all’opera ed alle donazioni dei lavoratori del porto e, anche per questo, unica nel suo genere. Posta in un quartiere “liberale e ribelle” assai amato dalla gioventù locale, El Born, fatto di stradine strette e di anfratti che ricordano Siena ed i borghi medioevali italiani, animato dai numerosi locali meta sia di turisti che della movida spagnola. Uno di questi localini, in particolare, non lo noteresti mai se non per la folla che contiene. Ci passeresti affianco decine di volte senza che ti venga mai in mente di entrarci per come è angusto l’ingresso. Ti ci devono condurre e devono pure insistere per convincerti ad entrare in quella confusione di persone che consumano in piedi, praticamente uno addosso all’altro. Si chiama El Xampanyet, e la cosa strana è che ha regole e stile volti a scoraggiare i visitatori, a cominciare dall’orario di apertura, 19-23, improponibile per gli spagnoli abituati ad uscire molto tardi e vivere la notte tutti i giorni della settimana fino all’alba… eppure è la massa che lo sceglie, con ostinazione, nonostante tutto. Abbiamo avuto la fortuna di avere amici indigeni molto persuasivi che non si arrendevano facilmente e così abbiamo potuto far conoscenza con la famiglia Esteve.
L’esercizio nasce nel 1872. Botti di legno ospitavano il prezioso liquido locale ma anche quello acquistato presso il vicino porto, una semplice rivendita di vino, olio e altri prodotti sotto conserva provenienti da tutto il mediterraneo. Soltanto cinquant’anni dopo passa alla famiglia di cui vi parliamo e cambia il suo destino. Dal 1929, infatti, oltre a restare uno spaccio di articoli gastronomici di importazione, si trasforma in qualcosa di più, qualcosa di estremamente moderno per quegli anni, in linea con le nuove tendenze attuali: un punto di degustazione e di presentazione di prodotti originali e particolari. Nel contempo, sull’onda dell’entusiasmo per la novità da subito assai apprezzata, la famiglia Esteve crea una bibita che ha la caratteristica di essere economica e piacevole, facile e godibile, per i portuali che non potevano permettersi Porto, Cherry, Champagne ed altri vini europei ragionevolmente più costosi. Nasce così El Xampaniet che loro identificano come lo “champagne dei poveri” e che darà nome e vita ad uno dei più caratteristici locali della città.
Diciamo subito che il nome è assai irriverente e che la bevanda è quello che è: un vino bianco di anonimi vitigni che viene “ritoccato” in bottiglia con lo zucchero per consentirgli di acquistare una spuma cospicua e grossolana ed un residuo dolciastro. Questo basterebbe a far rivolgere lo sguardo degli enofili verso l’altro lato dell’universo. Ma attenzione, mai commettere l’errore di ignorare a priori i fenomeni di massa, sennò facciamo gli intellettuali da salotto mentre noi siamo appassionati e la stessa curiosità che ci spinge a perseguire qualità sempre più elevate nei vini dovrebbe anche stimolarci davanti ad un consenso così marcato e diffuso, questo almeno “penso io cretin ‘e me” come dice un’adorabile nonnina che ho nel cuore. Per cui, con un poco di sforzo, la ordiniamo e, se la bevono gli altri, ci diciamo, allora la berremo anche noi. Scopriamo così una bevanda leggera e gradevole, servita nelle tipiche bottiglie rigate di vetro incolore con tappo a leva scorrevole (tipica bottiglia e tappo dell’idrolitina), in cui non si cercano sentori particolari o retrogusti nobili, ma che se ne scende che è una bellezza abbinata alle numerose tapas che vengono servite e che sono la vera origine della notorietà dell’azienda e la reale ragione di questo articolo. Tecnicamente posso dire che l’affermazione del vino è dovuta alla sua intrinseca capacità di poter essere abbinato ad una varietà enorme di pietanze tra loro organoletticamente molto differenti, un po’ come accade col prosecco e l’antipasto all’italiana, ma al di là di questo capisco solo dopo che le ragioni del successo sono ben altre. Xampanyet non è un vino, non è nemmeno una bibita, non è una gassosa e nemmeno l’idrolitina la quale, con molta probabilità, ha un bouquet olfattivo più complesso e raffinato. Xampanyet è un’idea, l’idea fatta bottiglia della leggerezza, dello stare insieme senza schemi né ambizioni, per non contare quanto vino beviamo, né considerare la gradazione alcolica, l’annata etc. Qui è diverso, si procede senza scegliere, una volta tanto ci scoliamo quello che arriva senza se e senza ma… ci sono tanti modi di stare insieme e di condividere il cibo ed altre emozioni, e questo è uno di essi, ed ha il suo spazio, la sua ragione di essere. Ma mentre arrivano bottiglie su bottiglie di questa acqua magica, la qualità finora un po’ trascurata la ritroviamo nelle tapas, tra le più incredibili mai assaporate. Ne arrivano a dozzine accompagnate dal pane condito con olio e pomodoro (tipico anche nelle prime colazioni dei catalani, pensate addirittura insieme al caffè, ‘o fridde ‘ncuolle direbbe Benigni). Ne sono tante e tutte straordinarie così che decidiamo di attendere la chiusura del locale per chiedere a “Mastrolindo” la possibilità di rivolgergli qualche domanda. “Mastrolindo” acconsente e aspettiamo. “Mastrolindo” è Juan Carlos Esteve, “il figlio maggiore”, il viceré della dinastia ma per me il vero Re di Spagna, ci spiega che la loro mission è preservare le usanze di famiglia e che per questo non c’è un operatore del locale che non sia un parente stretto. Il pater familias, il titolare, l’imperatore illuminato, insomma, è a letto influenzato e la sera della nostra visita siamo in un regime matriarcale perché comanda Mamma Rosa, la quale detta i tempi muovendosi nella ressa con eleganza e calma olimpionica e sfoggiando una acconciatura assai articolata ed un inesauribile sorriso che distribuisce con generosità a tutti e che vuol dire “fai quello che vuoi che io ti voglio bene lo stesso”. È davvero sorprendente come tutti loro riescano a conservare la gentilezza e le cortesia in una bolgia simile, dove mille persone chiedono mille cose nello stesso tempo. Loro rispondono come e quando possono ma senza mai perdere il buon umore, manderei a fare in questa struttura degli stage agli operatori di sportello della posta centrale. Comunque, tornando alla nostra intervista, dopo una prima chiacchierata informale dove apprendiamo le notizie fondamentali, Mamma Rosa e il figlio Juan Carlos ci portano nella stanza dei segreti che è un piccolo tinello alle spalle del banco, per mostrarci i propri capolavori. Troviamo un gran numero di leccornie, meritano di sicuro una citazione le sublimi olive catalane snocciolate e farcite di crema di alici, gli incredibili peperoncini agrodolci del sudafrica, piccoli e rossi come pomodorini pachino, serviti ripieni di formaggio di capra speziato, le varie tortillas (tra cui quella de patates), i crostini con gli insaccati iberici, l’insuperabile Jamòn e tanto altro che vi assicuro vale la pena di un viaggio in catalogna… Ma quel che colpisce più di tutto sono le aringhe, le anchoas. Una tradizione di famiglia antica come il tinello in cui siamo compressi, aringhe che vengono conservate sotto sale per tre anni, in torte bianche così perfette che ci manca solo la candelina. Passato poi questo tempo, l’aringa viene separata dal sale e disposta in una tortiera dove viene messa sott’olio per una settimana circa, anche in questo caso la disposizione è scenograficamente perfetta, sembra la spirale della Sagrada Familia di Gaudì… quello che vi arriva nel piatto è divino e non vi sembri esagerato il termine, perché vi assicuro che la morbidezza, la sapidità, la tendenza dolce e quella acida, l’aromaticità, la consistenza tattile ed il retrogusto di mare sono in un’armonia perfetta. Come perfetta è l’armonia che si crea, inevitabilmente, in questo luogo.
C’è una parola che assocerei a questa esperienza, raramente mi capita di trovarne una sola per me così ben rappresentativa: brio. Il brio della bevanda, delle tapas, della “famiglia reale” Esteve, degli spagnoli e dei napoletani, che eravamo noi, perfettamente integrati tra quelle piastrelle blu mare ed i tavolini di marmo, perfettamente a nostro agio in quella confusione, tanto da arrivare a considerare Barcellona il miglior compromesso tra civiltà e vivacità, una delle poche città alternative all’amata Napoli. Così coinvolgente da far nascere tra noi il gioco di trasferirci tutti lì, una burla di una “alcolica” serata ma che al ritorno lentamente vedevo evolvere dentro di me ed assumere la consistenza di un pensiero vero. Man mano che leggevo il giornale il giorno dopo il nostro ritorno sentivo più forte il sapore dell’aringa ed il pensiero diventava chiodo fisso… qualche notte fa mi hanno sentito parlare nel sonno, pare che ripetessi (come Gullotta) “me ne voglio andare, me ne voglio andare, me ne voglio andare…”, chissà se non è stato a causa del TG1 a cui incautamente la sera avevo rivolto alcuni minuti di attenzione e chissà se non stessi sognando proprio Barcellona, magari in particolare la locanda El Xampanyet.

PS El Xampanyet, C/ Moncada 22 – 08003 Barcellona – tel. 0034 93 319 70 03, dite che vi mando io!