Di Luca Massimo Bolondi
Lo champagne è come il gatto, elegante, flessuoso, …e ha sette vite. Viene da declinarlo al femminile, la champagne, poiché un vino complesso e capriccioso, che ammalia sin dallo sguardo e al finale ti lascia beato e insoddisfatto (ne vorresti sempre e non ti basta ancora) incarna l’eterno femminino, è archetipo di fascino e voluttà, fa poesia con seta e con brillanti. Vino nobile della società borghese, è il protagonista dei menu di prima classe a bordo dell’Orient Express, poi della Queen Elizabeth, poi del Concorde. Come il gatto, è un nobile vagabondo e democratico, capace di abitare con pari eleganza i salotti di corte e le abitazioni urbane. E il mondo della di lui produzione non è da meno. Da sempre dominato da grandi maison blasonate e da grandi produttori, le leggi del marketing lo classificano un mercato maturo e chiuso all’ingresso di nuovi competitori; ma ecco che negli anni ’80 un négociant-manipulant, ovvero un privato titolare di una casa senza terra che vinifica con uve di terzi, manda a gambe all’aria i canoni del sistema. Le citoyen Bruno Paillard, inquieto champagneur di terza generazione, avvia un percorso di elevazione qualitativa che lo porta in un decennio (tempo brevissimo, per il mondo del vino) a macinare riconoscimenti e incassar gran stima. Incontrato dapprima a Città del Gusto e poi in una lezione-intervista-degustazione all’enoteca Ciao Vino ospiti di Fabrizio Erbaggio (qui e qui), maitre Bruno ha dispensato a piene mani perle di enoica smaliziata saggezza. In primis, il lato narcisista del successo nelle nobili bollicine: perché lo champagne ha (quasi) sempre nome di persona? Chi opera nello champagne sposa una tradizione, ha per naturale vocazione la qualità e per naturale obiettivo l’eccellenza, altrimenti farebbe meglio a cimentarsi con vini fermi. E ha piacere a metterci la faccia, ovvero il proprio nome, come marca di stile. Chi fa lo champagne è l’assembleur, che impiega i vins de réserve i custoditi nella casa. Ecco perché un grande champagne non può nascere in breve tempo. La pratica dell’assemblaggio è quella che garantisce una qualità e uno stile organolettico costanti nel tempo, rimediando alle difficoltà delle annate meno felici mediante accorto sposalizio con quelle benedette. E ci sono maison che custodiscono annate antiche per mantenere, aggiungendolo, il tocco di stile. Per questo motivo la produzione principale è sans année, senza indicazione d’annata. Poi ci sono i millesime, le vendemmie gloriose, con uve tanto buone da meritare che parte della produzione vada vinificata a sé e permetta di registrare l’anno di grazia in etichetta. Una grande maison gioca su più tavoli, ma sempre di persona.Secondo, il percorso di marketing: il successo dell’inquieto champagneur è giunto grazie a una ricetta apparentemente semplice. Quale?
Lo Champagne secondo Bruno Paillard, libretto d’istruzioni.
1. seleziona le uve migliori dai cru migliori, avendo cura di stipulare con i conduttori dei cru contratti di acquisto a lungo termine per garantirti una continuità qualitativa;
2. impiega solo la premier presse, che consiste solo nel 55-60% del mosto ma ti premia con grande limpidezza, che ti evita manipolazioni successive per chiarificare, e con l’estrazione solo dei migliori caratteri gusto-olfattivi;
3. sfida il disciplinare e allunga la maturazione, portando la permanenza sui lieviti da 15 a 36 mesi;
4. mantieni basso il dosaggio di zuccheri, portandolo a 5-7 grammi a litro quando la legge pone un limite a 15 e gli altri ci stanno a filo;
5. sfida il tempo, dopo la sboccatura riporta la bottiglia in cantina e concedile un riposo di affinamento misurato in lustri, rigorosamente alla temperatura costante di 10,5°C e a umidità controllata.
Non trascurare la sboccatura è fondamentale. Nel lessico degli champagneurs non si parla di degorgement ma di operation, come di un intervento chirurgico. E come dopo ogni intervento, è di prassi un periodo di convalescenza, più breve se il paziente è giovane e più lungo se è avanti negli anni. Questione di difese immunitarie nell’uomo, questione di riequilibrio dei componenti chimico-fisici nel bullicante vinello. La bocca lo premierà. Secondo Paillard, per il palato il non plus ultra non è l’effervescenza bensì la crémance, che racconta dei metodi di cantina e del successo della cura post-operatoria.
Terzo, perché maitre Bruno ci tiene alla metafora delle sette vite? La risposta viene in degustazione.
Premette che, per degustare, all’occhio servono il bianco e il nero. Uno sfondo bianco per riconoscere il colore, uno sfondo nero per osservare il perlage. Poi, attenzione alla temperatura, perché ancor più vale la regola che se un vino caldo butta fuori più sentori lo champagne caldo è un’offesa mortale al gusto. Ogni degustatore sa che i sentori di un bianco pérlant sono pensati per la sua temperatura giusta. Infine, le sette vite. Sette stadi di iniziazione alle gioie del tempo che scorre, sette note distintive a comporre una scala di riconoscimenti: la frutta, i fiori, la frutta secca, il forno, il pan di spezie, i canditi, la torrefazione. Ad ogni soglia temporale, misurabile in tre-quattro anni, si aggiunge un sentore a quelli già avvertibili. Un lento lavoro di accumulazione olfattiva. Così, alla soglia della maggiore età, madame pétillant si laurea gatta di corte con una tesi sull’eterno ritorno. Il relatore, monsieur Paillard, conclude affermando che stappare anzitempo un suo champagne è come commettere un infanticidio. Quindi, attendere e fare le fusa alla bottiglia.Qualcuno in sala ha chiesto il prezzo. Quando ti arriva sul tavolo una bottiglia che ti ha aspettato tanto a lungo da reggere il confronto di Penelope con Ulisse, e che ad occhio naso e palato canta un’ode omerica, non ti curi del conto. Un viaggio meno lungo e fatto in seconda classe costerebbe di più.
Luca secondo Fabrizio : se fosse un Vino …. Champagne !
de quelli boni ..claro.