Di Fabio Cimmino e Mauro Erro
La storia di questo vigneron francese non può essere raccontata separatamente da quella della sua famiglia. I fratelli Cotat, Francis e Paul, sono considerati un’icona del vino francese, divenuti, ben presto, una leggenda controversa dei loro tempi. Tutto questo attraverso una “semplice” scelta di campo, quella della tradizione ad oltranza quando tutti gli altri produttori dell’area avevano deciso, ormai da tempo, di abbandonarla e dimenticarla. Una produzione dai numeri molto limitati di stampo rigorosamente conservatrice ed artigianale. Un vecchia pressa in legno, botti grandi, nessuna filtrazione, leviti indigeni, imbottigliamento con la luna piena… Risultato? Bottiglie di trent’anni ancora perfettamente bevibili. Oggi, forse, questi aspetti così reazionari di fare vino non
sembrano tali come, invece, ancora apparivano agli inizi degli anni ottanta. L’eredità è stata raccolta dai rispettivi figli Francois e Pascal: giovani vignaioli celebrati non di meno dei loro genitori dai giornalisti di settore, ma anche da illustri colleghi produttori come Didier Dagenau. Come i propri padri, sia Francois che Pascal hanno mantenuto, nonostante il successo, un attegggiamento di umiltà e di modestia non comuni. Quando gli viene chiesto di illustrare il loro “metodo” rimangono ammutoliti e spiazzati. Inutile insistere. In effetti se proprio vogliamo individuare, da soli, quali possano essere i caratteri peculiari del loro modo di fare vino, sicuramente, bisogna ricordarne due: la vendemmia ritardata, o tardiva, ed il più assoluto non interventismo in cantina. Per quanto riguarda il primo aspetto questo si traduce in vini dal frutto ricco e l’alcol esuberante ma
anche, talvolta, in un leggerissimo residuo zuccherino. Gli esempi più estremi di quest’arte di vinificazione sono imbottigliati come “cuvèe special”. Fino agli anni novanta in etichetta campeggiava a caratteri cubitali la scritta Chavignol mentre la dicitura Sancerre rimaneva relegata piccola, piccola in un angolo. La famiglia Cotat ha sempre pensato che il vero “terroir” si potesse identificare solo con il comune d’appartenenza e non con una più generica appelation. Nonostante si trattasse di una chiara infrazione alla legge francese sulle denominazioni d’origine, questa situazione è andata avanti per anni. Ma c’era un problema ancora più impellente da risolvere. Prima i fratelli, poi i cugini Cotat, vinificavano sotto lo stesso tetto con due diverse etichette e questo non è concesso dalla legislazione d’Oltralpe. La situazione irregolare proseguì fin quando Pascal non decise di trasformare il suo garage-officina di Sancerre in una rudimentale cantina e poter, così, separare i distinti processi di vinificazione che portavano alle diverse etichette. In realtà, dopo ripetuti richiami, una vera e propria risposta da parte delle autorità francesi non si fece, comunque, attendere, ma invece di colpire l’etichettatura o rilevare violazioni formali, è andata direttamente a sentenziare sul vino escludendolo, nel 1998 e nel 2002, dalla possibilità di fregiarsi della Aoc Sancerre, per una presunta mancanza di tipicità motivata con la presenza di zuccheri residui (il comitato addirittura, si dice, ipotizzò l’inipotizzabile cioè la chaptalization=zuccheri aggiunti). In questa come in altre annate i Cotat sono stati, pertanto, costretti, a declassare i propri vini a Vin de Pays. L’assoluta rinuncia a qualsiasi trattamento di cantina, l’impiego di grandi botti esauste (alcune centenarie), l’imbottigliamento a mano con il sigillo in ceralacca, rendono i bianchi della famiglia Cotat tremendamente affascinanti ma anche estremamente variabili…
Francois possiede 2 ettari e mezzo coltivati ad alta densità d’impianto (circa 8000 ceppi per ettaro contro i 6500 della zona) e rese molto contenute (60 quintali per ettaro). Le Mont Damnés è considerata la migliore vigna di Chavignol, la più ripida e gessosa di tutta Sancerre, da questi filari si ottengono Sauvignon duri e puri in grado di regalare un’ineguagliabile freschezza gustativa a distanza di molti anni dalla vendemmia. Anzi senza il necessario lungo affinamento in bottiglia questi vini vedono limitata, e di tanto, la propria potenzialità espressiva. Una complessità, una ricchezza ed una lunghezza aromatica da togliere il fiato. Agrumi, buccia d’arancia, fragole, liquirizia, nocciola, melone e, soprattutto, la tipica, inconfondibile nota gessosa. Francois Cotat continua a ritenere, però, superiore (ed anche il prezzo risulta più impegnativo), la vigna della Grand Cote giustificando lo scarto qualitativo con la presenza di vigne molto più vecchie. L’interpretazione, ciò nonostante, sembra andare in una direzione ancora più generosa, fruttata ed esotica, con la frutta secca che si fa più grassa ed oleosa mentre la componente mineral-gessosa sembra rimanere sottotraccia. (Segue note di degustazione…)
Le Monte Damnes 1993: il colore è oro, scarico, con unghia trasparente. La prima zaffata è minerale a corredo di un sentore dolce a cui s’accompagna in reminescenze idrocarburiche di sottofondo. Poi frutta bianca, albicocca. Infine splende di un sentore di polvere da sparo nitidissimo.
Al palato è nervoso, forse blando all’ingresso, sicuramente snello, il sorso è di grande tensione gustativa, forse troppa: l’acidità sapida prevarica e impedisce qualsiasi progressione e persistenza aromatica.
Le Monte Damnes 1995: al colore è più scuro, al naso più cupo. Gessoso, quasi salmastro, si susseguono note di frutta matura, di caramella alpelibe, di erbe sotto spirito, una nota piccante poi posa di caffé e cenere. Al palato ha una marcia in più, il miglior di questa prima miniserie: elastico, va ovunque, largo, lungo, succoso, chiude lasciando la scia di una caramella d’orzo con una sensazione leggerissima d’astringenza.
Le Monte Damnes 1996: citrino e dolce. Spezie ed erbe, felce e bucce d’arancia. Al palato risente ancora del residuo zuccherino avvertibile che ne blocca lo sviluppo gustativo, non permettendo al sorso di dispiegarsi, ma rendendolo anche denso nel centro bocca. Chiude riportando al palato il sapore di pompelmo.
La Grande Côte 1990: Il colore è dorato antico e così sarà per gli altri campioni di questa vigna, con i vini più carichi nella tonalità rispetto ai primi tre, con leggere sfumature ed echi che li differenziano tra loro. Acquaragia, yogurt alla fragola, oliva bianca, tiglio, menta. Naso giovanissimo estremamente dinamico. Al palato è godurioso e saporoso: ha grande equilibrio, ottima persistenza, dopo la leggerissima sbandata dell’alcol, chiude su una sensazione lievemente amarognola.
La Grande Côte 1995: naso solare, balsamico e floreale. Cenere e ribes nero che si evidenziano. Al palato ha buon passo, il sorso è di grande tensione, il ritorno aromatico di ciliegia sotto spirito e agrumi, la sensazione retronasale di camino spento.
La Grande Côte 1996: scatola di mais appena aperta. Pan di spagna leggermente bruciato, prugna, una sensazione vegetale. Al palato è ancora denso, corposo, avvertibile il residuo zuccherino, chiude su una sensazione di caramello leggermente bruciato
Foto: thewinedoctor.com
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