Di Monica Piscitelli
Non se ne è fatto mistero agli Stati Generali del Vino della Campania che si sono conclusi sabato scorso: ci sono voluti 20 anni per vedere tutti gli operatori, pubblici e privati, della filiera del vino intorno a un tavolo. Un tempo troppo lungo durante il quale la Campania ha fatto almeno un paio di rivoluzioni e molte piroette. Il clima della due giorni è stato da “movimentazione generale”, grazie ad una grande adesione di addetti al settore ed a un sostanziale clima di collaborazione e di confronto. E’ stata l’occasione per ascoltare gli esperti e scienziati del settore di ogni tipo, rango e provenienza, secondo un approccio multidisciplinare che ha prodotto oltre 50 interventi e poco meno interventi spontanei di produttori, accademici e rappresentanti dell’amministrazione pubblica. Tra i molti momenti meritevoli di un racconto, nel corso della seconda giornata, la presentazione del lavoro “Alle radici del vino, i Crus dell’Appennino Meridionale” a cura di Raffaele Beato e la relazione di Eugenio Pomarici, professore associato all’Università Federico II di Napoli, Dipartimento di Economia e Politica Agraria che in quel testo è autore di un saggio che ripercorre alcuni dei punti proposti ad Avellino. Il progetto dei Crus, nell’ambito del più ampio programma di sviluppo di marketing del Consorzio Osservatorio dell’Appennino Meridionale, parte da una lettura delle aree sub collinari e pedemontane dell’Appennino campano, incentrata sul valore e sulla specializzazione di alcune produzioni agroalimentari, fra le quali il vino assume un ruolo centrale. Indagini sul territorio e analisi sensoriali e fisico-chimiche hanno portato ad individuarne 17. Di base una considerazione: dei 100 cloni riscoperti in regione, 26 sono allocati in aziende di lata collina e 4 in areali collinari sopra i 450 m.s.l.m. Ed ecco che i Crus dell’Appennino Meridionale o “i vini del monte”, sono il segno unificante di questa realtà e punto di forza per il suo rilancio. Il tutto anche in chiave turistica. La Campania si colloca al quarto posto tra le regioni italiane per la capacità di attrarre turisti mossi dal gusto e dal vino, che seguono a ruota l’arte e il mare tra le motivazioni di viaggio. Il Censis ha evidenziato come per ogni 10 euro spesi nel vino il “turista rurale” ne spenda quattro volte tanto, in ospitalità e servizi. In quest’ottica, evidentemente, la scelta dell’assessore al Turismo Claudio Velardi, intervenuto agli Stati Generali del vino, di incentrare lo sviluppo dell’Irpinia sul vino anche riattivando la linea Avellino Rocchetta Sant’Antonio e reinventandola come trenino delle aree interne, che accompagna i wine lover di tutto il Mondo in giro per cantine e vigne.
La relazione del professor Eugenio Pomarici* nel dettaglio
* professore associato all’Università Federico II di
Napoli, Dipartimento di Economia e Politica Agraria
Nel periodo 1995 – 2007, dopo una progressiva contrazione dell’offerta, con l’inizio del nuovo millennio, la produzione campana di vino ha subito un costante incremento fino al 2006, anno nel quale ha toccato quota 1,9 mln di ettolitri, per flettere nel 2007, leggermente, raggiungendo 1,7 mln di ettolitri. Come in altre regioni, la superficie vitata è in contrazione. Il vigneto professionale misura mediamente circa tre ettari, essendo l’estensione complessiva del vigneto professionale di 22500 ettari (il 75% della superficie destinata alla viticoltura) e condotto da 8000 viticoltori (86000 sono quelli censiti). La superficie destinabile alla produzione delle denominazioni d’origine è del 16% (4500 ettari). Le varietà storiche rappresentano quasi il 40% della superficie vitata regionale (dati 2000). L’Aglianico (6633 ettari) e il Piedirosso (934 ettari) sono i vitigni storici a bacca nera più coltivati e rappresentano il 26% della superficie; mentre, tra quelli storici a bacca bianca, Falanghina (1561 ettari), Coda di Volpe (967 ettari), Fiano (650 ettari) e Greco (646 ettari) sono i principali. Ne rappresentano il 13%. La frazione dei vitigni storici iscritti alle denominazioni però è molto bassa. Gli impianti con capacità produttiva annua inferiore ai 100 ettolitri sono l’84% del totale (1590 aziende). Quelli medio grandi (più di 500 ettolitri) sono il 7% (140 aziende). Di queste solo 10 hanno una produzione potenziale annua superiore a 5000 ettolitri. La Campania detiene una fetta pari al 5% della produzione nazionale. L’1,4% dei vini a denominazione e 1,5% di quelli a indicazione geografica sono campani. I vini con menzione geografica sono in Campania il 25% di tutti quelli prodotti. Mentre a livello nazionale essi costituiscono il 60% del totale. I campani sono bevitori moderati: il consumo di vino procapite è del 10% inferiore alla media nazionale. In ragione della popolosità della regione esiste un’eccedenza della domanda sull’offerta (i consumi sono 4,2 mln di ettolitri, mentre la produzione è inferiore a 2 mln di euro). La regione non è autosufficiente e importa vino da altre regioni, mentre è trascurabile il ricorso all’importazione dall’estero. Ma, nonostante ciò, le eccedenze (1 mln di ettolitri nel 2003) e il ricorso alle distillazioni non sono infrequenti. La grandissima parte (il 70%) dei vini regionali resta in Campania. Il resto di dirige verso il Lazio (13%), Emilia Romagna e Lombardia. Il contributo della Campania alle esportazioni nazionali è pari a meno dell’1%, corrispondente a 50000 ettolitri e a un valore di 15 mln di euro. Interessante è il dato che evidenzia che il valore unitario di esse è prossimo al doppio della media nazionale. Segno che la regione concentrata le sue esportazioni sui vini di maggior pregio. Un’analisi del 2006 ha evidenziato, poi, che solo poco più di un quarto delle imprese campane sono orientate al mercato. Nel senso più ampio del termine.
Dal 2003 al 2006 è cresciuto il numero delle aziende che operano con il proprio marchio, passando da 176 a 236. Ma sono soprattutto quelle con maggiore capacità produttiva. Tra le prime 18, 5 sono cooperative, 3 sono beneventane. Nella offerta delle aziende che utilizzano marchi propri sono prevalenti i vini a denominazione e quelli a indicazione geografica.
Un’intervista a 22 aziende vitivinicole esportatrici che rappresentano il 71% in valore delle esportazioni campane evidenzia (2007) che i mercati più importanti sono Germania, Regno Unito, USA e Giappone. A scoraggiare la maggior parte di fronte ai mercati esteri, è emerso, sono le problematiche connesse alla scarsa conoscenza dei prodotti campani, ad ostacoli di natura burocratica e a problemi di acquisizione di informazioni sui mercati.
La regione soffre di una bassa capacità di integrazione della filiera, utile alla valorizzazione del vino campano: al marzo 2006 risultano istituiti solo tre consorzi, mentre delle 10 Strade del vino esistenti, al 2008, nessuna era veramente operativa.
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