Di Mauro Erro
Ciò che separa principalmente me e Luciano Pignataro sono vent’anni d’età. Non solo. Guardiamo il vino da posizioni diverse: io, come operatore di questo settore; lui, da cronista. Il nostro confronto è sempre stato schietto e sincero, fatto, quando occorreva, anche di scambi polemici e battute pepate. Un “carteggio” lungo un anno e più di una scrittura densa, ricca di spunti personali, a cavallo tra filosofia e mercato: dal generale al “particulare guicciardiniano”.
Classe 1957, caposervizio al quotidiano Il Mattino, Luciano Pignataro si occupa di vino nella sua rubrica settimanale dal 1994 e sul suo sito dal 2004. Affiancato da tanti giovani collaboratori ha raccontato, soprattutto attraverso le sue guide, divenute strumento quasi imprescindibile per gli operatori, il mondo del vino campano da quindici anni a questa parte nel momento della nascita e della successiva trasformazione della maggior parte delle aziende. In occasione della presentazione di Giovedì 29 gennaio, alle ore 18.00, presso la libreria La Feltrinelli di Napoli in Piazza dei Martiri della sua guida ai vini della provincia di Napoli, propongo un estratto di questo nostro scambio, consapevole che, almeno per quanto mi riguarda, tante curiosità sono ancora da saziare.
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Dopo che sarà pubblicata l’ultima parte della guida, farà altro in merito al vino o quello che c’era da raccontare è stato raccontato?
Quando ho iniziato c’erano meno di 30 aziende in Campania. Ora siamo sopra quota 300. Penso che sarà difficile vivere e raccontare una seconda trasformazione così profonda e radicata sul territorio. In questi anni ci siamo sforzati di dare spazio a tutti partendo dalla fiducia e dai buoni propositi che ciascuno enunciava. Alcuni hanno mantenuto le premesse, altri le hanno tradite. Siamo in una fase in cui sicuramente il nadir della crescita è stato superato: pensa al fatto che sono numerosi anni ormai in Italia che non nascono vini evento, ma solo vini-notizia dovuti ai ripescaggi dell’ondeggiante critica enologica sul già visto. Forzare questo movimento e accompagnarlo era di per se un gesto responsabile e positivo, ora è necessario procedere alla selezione, concentrarsi sulle aziende che hanno lavorato seriamente e che continuano a farlo, soprattutto su quelle non ingorde, capaci di attendere, di sviluppare una filosofia coerente con la propria storia e il territorio. Siamo stanchi di Asprinio spumantizzati in Veneto ancora dopo 15 anni in regime di proroga, di cantine con un ettaro che fanno centinaia di migliaia di bottiglie, di aziende che saltano da una doc all’altra. Personalmente penso però che il ruolo avuto dal vino nella crescita della consapevolezza rurale stia terminando.
Quali argomenti si pongono all’attenzione?
Le questioni decisive riguardano cereali e proteine, ossia legumi e carni, oltre che l’olio. Il futuro della gastronomia non è legato alla scomposizione della materia come pure appare in questo momento di astrattismo culinario tipico delle società urbanizzate, bensì alla perfetta aderenza dei prodotti alle loro qualità organolettiche e di territorio. Oggi uno chef non si vede solo da come cucina la carne, ma anche dove la prende, se si affida semplicemente ai franchising o se realizza ricerche sfidando l’incertezza dei tempi e delle consegne, avendo il coraggio anche di dire no al cliente. Così per tutti i prodotti. Il cibo non può essere solo un bene rifugio della psiche, ma una potente arma, come è sempre stata nella storia dell’uomo, per decidere come deve essere organizzata la società e quali relazioni avere con gli altri popoli. Le grandi potenze della storia hanno sempre avuto una solida base agricola: gli Usa hanno battuto l’Unione Sovietica perché la produttività agricola di un farmer americano valeva quella di quattro colcosiani. La disponibilità e la vitalità dei suoli agricoli sarà la grande questione che si porrà nei prossimi decenni e se prima si risolveva con le migrazioni e le invasioni, adesso il problema sarà tutto nella gestione delle risorse. La destra vuole depredare lasciando agli altri il compito di vedersela con quel che resta, penso che una lettura di sinistra, di riequilibrio, debba impedire con forza l’affermarsi di una visione predatoria e battersi per una società in grado di far fronte alle emergenze che ci aspettano e di cui la crisi finanziaria e l’immigrazione sono solo uno spiffero.
La fotografia di questo momento mostra un settore in crisi: ristoranti deserti, enoteche che soffrono anche la concorrenza della Grande Distribuzione, aziende vitivinicole che non riescono a recuperare soldi avendo scarsa disponibilità di liquidità. Come si esce dalla crisi? Cosa deve fare il movimento campano?
Dalla crisi si esce producendo vini che non superino i 5 euro e che siano capaci di esprimere personalità. I campani devono conservare il loro stile avvinghiato all’acidità e non mollare. Nel futuro del cibo sempre più autoreferente e morbidoso vedo un bisogno crescente di acidità. Diamogliela, magari limitando l’alcol, per quanto possibile, a 12/13 gradi.
Hanno operato bene i produttori campani in questi ultimi dieci anni o sono più le occasioni perse?
No. Le occasioni si iniziano a perdere da adesso in avanti. Senza zonazione, verticalizzazione delle annate e senza associazioni con un direttore operativo c’è il rischio di essere respinti indietro da altri territori.
Oramai credo che la critica abbia cambiato rotta, non so se si tratta di un vero cambiamento, piuttosto che un adeguamento ad una tendenza, ma sta di fatto che biologico, biodinamico e i vini naturali tirano di più, e il piccolo vignaiolo piace più della grande azienda: in questi termini perché non adeguarsi alla critica, perché non parlare più, che so, di Gmg vinicola Taurasi piuttosto che di Feudi di San Gregorio?
Non c’è un disegno complessivo, ma solo meccanismo di formazione della notizia che si deve inseguire. Se Feudi fa un convegno a Roma e finanzia la ricerca, se fa una serata da Coccia, se..se.., tu puoi fregartene, io devo dare la notizia. La domanda invece è un altra: cosa fa Gmg oltre ad essere una brava persona e produrre un buon vino?Non è che io posso andare dal mio direttore e proporre una pagina su Emilio solo perché mi è simpatico. Questo è lo scarto sul giornale che fa la differenza. Per quanto riguarda me, proprio nel caso di Gmg, ne ho scritto, strascritto e premiato nelle guide e nel sito. Ma la questione è che nel mondo dei media sono importanti le relazioni, creare rapporti, eventi. Proprio come nel web e in ogni attività umana. Se tu te ne stai a Taurasi e fai buon vino, può capitare che passino Luciano e Mauro, ma, appunto, può capitare. Invece deve capitare.
È il mercato che determina la validità e l’esistenza del vino o è il vino che deve sapersi porre sul mercato? Insomma finanza creativa o economia reale?
Il mercato è il luogo dello scambio, dunque del progressivo avvicinamento tra due persone, tra domanda e offerta, sino al loro incrocio. E’ un mezzo e non certo un fine come è stato dipinto negli ultimi anni. Il punto è che non esiste un solo mercato e una sola offerta, il parallelo più efficace è quello delle auto: tutto è mercato dell’auto quando si tirano le somme, ma noi sappiamo bene che i segmenti sono diversi, la crisi energetica spinge la domanda verso il metano, il lusso verso le supercar accessoriate, i divieti nelle città verso le motrici elettriche o gli autobus e i tram, eccetera. Così è per il vino. Sicuramente un vino è buono, intendo dal punto di vista organolettico, solo quando esprime la propria capacità di essere scambiato. Si tratta di progressivi avvicinamenti e repentini mutamenti. L’aspetto anomalo piuttosto riguarda la rapidità di queste correzioni perché in campagna non si può mutare impostazione da un anno all’altro e dunque è questo atteggiamento a dover essere guardato con sospetto o perlomeno con attenzione dal consumatore.
Dunque, se tra qualche anno si dovesse provare con certezza che alcuni Brunello di Montalcino dalle improbabili sfumature purpuree, violacee, erano taroccati, che vi è stata l’aggiunta di uve diverse non previste dal Discplinare, come si potrebbe motivare il fatto, da parte dei curatori delle guide, dei riconoscimenti conferiti sempre e comunque?
Insomma, per fare un parallelo calcistico: sudditanza psicologica o Moggiopoli?
Se i curatori erano corrotti si godranno i soldi, se sono stati solo incapaci a nessuno più importerà di loro. Ai posteri la visibile sentenza, senza effetti penali.
Tre colleghi che stima e con cui vorrebbe collaborare?
Sicuramente Fabio Rizzari per il vino, Gianni Mura per il rapporto tra enogastronomia e informazione sul quotidiano e Franco Maria Ricci per la capacità di creare eventi.
Tre giovani su cui punterebbe per il futuro?
In Campania Paolo De Cristofaro e te, magari entrambi con meno tormenti interiori e più fiducia verso il sol dell’avvenire. Fuori regione vedo molto bene Francesco Falcone, destinato ad un grande avvenire di degustatore professionale.
Tre vitigni e tre vini oltre la Campania?
Il Gaglioppo di Ripe del Falco, il Negroamaro del Patriglione by Severino, il Montepulciano di Torre dei Beati.
La comunicazione on-line oggi? Sarà veramente il futuro, e che cosa possono fare per migliorare e per mantenere la loro posizione di leadership le riviste cartacee?
La comunicazione on-line è diventata fondamentale in tutti i settori. Già adesso è molto più rapida della tv e della radio mentre i giornali sembrano dei panda tra scoiattoli. Che le notizie passino attraverso qui non c’è dubbio. Non attribuirei alla rete compiti salvifici come pure qualcuno ha fatto: non è il regno della democrazia contro quello dell’omologazione, direi piuttosto è il regno delle possibilità come tutte le cose nuove e non a caso sono le giovani generazioni ad essere protagoniste. Ma anche in questo campo è questione di investimenti, capacità di dare contenuti, entrare nei meccanismi per guadagnare ascolti. I siti sinora sono abbastanza artigianali e lo scarto è dato dall’esperienza di ciascuno, ma con il tempo si concentreranno sforzi e capitali e questo farà la differenza. Faccio l’esempio di un giornale on-line: chiunque può farlo, ma i maggiori quotidiani ci stanno riversando redattori e tecnologia e la competizione sarà sempre più alta.
E per i singoli?
In realtà, per i singoli, la risposta può essere solo alto artigianato, non rincorrere i grandi network perché altrimenti si corre il rischio di essere caricaturali. Alto artigianato significa qualità della scrittura e delle immagini, foto e video, aggiornamento culturale e tecnologico costante, forte personalità da esprimere non tanto attraverso le urla e gli insulti quanto piuttosto una linea di rigore immediatamente percettibile da chi legge. Al tempo stesso è necessario creare quel giusto equilibrio per cui il fruitore non aderisce, ma usa il blog e il sito. Proprio in questa sfumatura c’è la chiave del suo successo di pubblico: chi clicca deve sentirsi a casa propria, non in un fortino o, peggio, in casa d’altri. Anche la chiave intimista è interessante, purché ci sia tanto da raccontare, altrimenti è caricaturale, finisce come i libri di poesie e i romanzi che ciascuno di noi da ragazzo scriveva e riponeva nel cassetto. La differenza sta nel fatto che è visibile.
E tornando alla carta stampata?
Quanto alla carta stampata non ho dubbi sul suo declino: non sarà più un mezzo di informazione, ma di formazione e di discussione. Di approfondimento ma non necessariamente per questo palloso, di orientamento di idee. Non dico nulla di strano, in America tutto questo c’è già e in Italia si sta verificando: i grandi quotidiani si stanno trasferendo in rete mentre le vendite calano. Vedo la rivista enogastronomica, ma non come oggetto patinato, bensì sullo stile di Slow Food, magari più snella e fruibile con contributi culturali, discussioni. Le guide sono destinate a sparire nell’arco di qualche anno perché non possono essere aggiornate, sono un fotogramma di un filmato che scorre altrove. Finiranno in rete, con la possibilità di essere scaricate e lette attraverso computer e Iphone e altre cose ancora. Personalmente non sono un nostalgico del “piacere della carta”, adoro molto questo cambiamento e credo che solo i romanzi, i saggi e i libri di ricette avranno ancora una ragion d’essere per molto tempo ancora nella forma in cui siamo abituati a consumarli.
Cosa legge Luciano Pignataro e cosa non legge?
Vado oltre, leggo tutto per lavoro. Ma proprio tutto. Mi piace? Tra i blog mi piace molto il Maiale Ubriaco per come pone le ricette, ma i post si sono rarefatti. Praticamente uno al mese. Ma quello stile è gradevole e ti arricchisce perché è una scrittura densa, in cui l’esperienza personale è un filtro per spiegare la realtà. Sul vino trovo stimolante quello di Gentili e Rizzari, pochi post ma sempre ben fatti e centrati che spingono a riflettere in maniera non preconcetta. Sul food ce ne sono un paio professionali, come Cavoletto e Un tocco di Zenzero. Sento molto la mancanza di Muccapazza per quella verve ricca e non prigioniera dei virtuosismi linguistici come Kela blu. Tra i siti sicuramente Lavinium che trovo il più simile al mio: è personalizzato ma al tempo stesso di servizio e comunque quel che si scrive è sempre verificato di persona. Nel food Lo Spicchio d’aglio è ben fatto. Quello politicamente più rilevante è Papero Giallo perché detta i temi. Anche Ziliani detta spesso i temi, ma a volte, non sempre, è troppo innamorato della polemica in quanto tale, non lascia margini di manovra all’avversario del momento.
Cosa non dovrebbe fare un critico?
Una sola cosa sopra tutte: non prendere soldi, in modo diretto o indiretto, dalle aziende singole. La mediazione etica possibile ma non consigliabile può essere quella costituita dai consorzi quando ci sono o, meglio, dalle istituzioni pubbliche quando fanno qualcosa.
Poi vivere senza astio verso i vini che non condivide, ma qui il piano è diverso, perché non mette in discussione la correttezza deontologica.
Su un’isola deserta, un unico vino da portare con se, quale?
Il Ripe Del Falco 1991 di Ippolito.
Cosa dovrebbe fare di più l’Ais? Quali, invece, gli errori in cui non cadere più?
L’Ais è una delle cose che funzionano in Campania e in Italia. Ha un suo stile, tipo i carabinieri e la Banca d’Italia. E francamente non ho nessuna critica da fare. Si può discutere teoricamente sul tentativo di dare precisione al linguaggio gustativo, ma resta un dato di fatto, e che cioè non c’è altro modo per alfabetizzare i consumatori. Un po’ come la storia dei punteggi. Credo che siamo in una fase ancora di crescita e acquisizione, per cui sono dibattiti futuribili in un paese, compreso qualche giornalista, che nel suo complesso discetta ancora su rosso o bianco sul pesce. L’Ais Napoli con Tommaso Luongo è in una fase molto dinamica, alla tradizionale efficienza nel fornire servizi si è aggiunta la capacità di intercettare le nuove forme della comunicazione e questo è stato un salto stellare rispetto alle precedenti gestioni che si ponevano il problema solo alla lontana. Al di là delle storie, la differenza tra presente e passato è tutta qua. Ovviamente, nuove forme di comunicazione implicano anche nuovi contenuti o, meglio, stare più sulla battuta, sui temi del momento e non limitarsi ad orecchiare come spesso si è fatto in passato. L’importante è aver sempre presente il ruolo istituzionale che si ricopre, porsi il problema di rappresentare tutti, e questo vedo che si sta facendo. Non vado oltre perché non è mai stata mia abitudine entrare nel merito della gestione delle associazioni, non mi spetta e non è compito mio. Io devo solo valutare i risultati finali. Che mi sembrano davvero molto positivi.
A cena con Cernilli e Sangiorgi, a chi fa scegliere il vino?
Lo faccio scegliere a Sangiorgi, ma lo valuto con Cernilli.
È difficile mantenere l’equilibrio?
Direi che è la cosa più difficile in Italia dopo il crollo delle ideologie e la destrutturazione di ogni stanza di compensazione sociale e psicologica. Tutti vogliono tutto e ci si scontra come monadi impazzite. I topolini in gabbia. Io non sono equilibrato, ma per mia fortuna ho l’esercizio a contenere gli impulsi sia con la militanza politica giovanile, sia con le attese dei tempi universitari, e, soprattutto, con il lavoro al Mattino nel quale si impara ad ascoltare e soprattutto a dare conto delle ragioni degli altri. Ci sono poi molti trucchi per mantenere l’equilibrio: il primo è evitare di identificarsi con l’oggetto del proprio lavoro pur magari condividendone le impostazioni e le idealità o gli obiettivi. In fondo il mio lavoro non è partecipare o condividere, ma raccontare anche se, ovviamente, questo non è un verbo neutro. Ma ricordarselo fa comunque bene, come i rilevatori di velocità che non funzionano ma che fanno istintivamente rallentare. Il secondo trucco, molto efficace, è evitare le reazioni a caldo, soprattutto nelle ore serali quando c’è più stanchezza e spesso esasperazione. Meglio rimandare ogni cosa il giorno dopo. Il terzo trucco è saper aspettare. Proprio come con il vino. Il tempo rende giustizia alla reale misura delle cose e delle persone: le gratificazioni sono molto più importanti quando, proprio come si dice della vendetta, vengono servite a freddo. Ghiacciate. Il quarto trucco è capire che se non si ha possibilità di far valere le proprie ragioni è perfettamente inutile strillare e litigare. Bisogna scrivere solo se l’obiettivo è nel mirino e tu hai il colpo, cioè la documentazione necessaria, in canna altrimenti si fanno i giochi pirotecnici.
Perché l’equilibrio è importante?
Per due motivi: fare bene il proprio lavoro e, al tempo stesso, conseguire più risultati con molto meno sforzo. Per un giornalista è l’essenza del proprio lavoro ed è quello che lo fa differente da un opinionista o da un critico.
In tanti anni di carriera, quale l’errore più grande, quale la soddisfazione?
La soddisfazione più grande è stata sicuramente il Premio Veronelli. L’errore? Essere stato giornalisticamente troppo schiacciato solo sulle tesi accusatorie durante Tangentopoli.
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