Di Sergio Romano
L’area del Lacryma Christi ha una dimensione pittoresca, caratterizzata dai toni verdi tipici della macchia mediterranea con i pini e la ginestra, dalla presenza del lapillo vesuviano fino all’azzurro intenso del mare. In questa cornice domina la selvaggia bellezza del Vesuvio, cratere attivo di antichissime origini, da sempre conosciuto per i sapori e gli aromi dei vini come testimoniano anche le pitture dell’Arario negli scavi di Pompei. Il comparto attraversa una fase caratterizzata da una progressiva riduzione delle superficie e da un contestuale calo della produzione. Tre sono sostanzialmente gli elementi caratterizzanti la viticoltura vesuviana: la parcellizzazione della proprietà fondiaria, la conseguente ridotta superficie agricola utile e l’aumento della densità demografica che determina una forte urbanizzazione dell’intero territorio vesuviano. Il tutto porta non più a coltivare un vigneto specializzato con varietà autoctone, ma, alla coltura promiscua consociata a frutta (albicocco, Kaki, nocciolo, mele) ed ortaggi (pomodoro, piselli, fave ecc.).
Nei Comuni che fanno parte dell’area vesuviana si contano 400 ettari a vigneto iscritti all’albo dei vigneti doc della Provincia di Napoli ripartiti in due zone: quella comprendente l’Alto Colle Vesuviano oltre i 200 m slm, caratterizzata da terreni più meno in pendio e l’altro Versante sud-orientale del Vesuvio, i cui terreni sono da ritenersi maggiormente favoriti e più idonei perché, oltre ad essere di formazione più recente ed in generale più fertili, sono anche meglio esposti, più soleggiati e rivolti verso il mare.
La flessione ha riguardato la superficie vitata delle microaziende, si registra però un potenziamento di quelle aziende viticole più orientate al mercato le quali acquistano ed accorpano superfici e razionalizzano le tecniche colturali e sono interessate a fare investimenti in vigna e in cantina ; si stanno diffondendo sempre più imprese orientate verso la produzione dei vini di qualità, con un marchio aziendale che ne attesti la provenienza, la tipicità e la base varietale.
In merito alle tecniche di ammodernamento del settore, molto è stato fatto in campo e.in cantina
In primo luogo si sta modificando la forma di allevamento che è di indubbia importanza in viticoltura, non solo per i riflessi fisiologici sulla pianta ma anche per gli aspetti gestionali, potendo consentire la meccanizzazione di potatura e raccolta. Infatti si sta abbandonando il sistema classico tradizionale a tendone o raggiera verso la spalliera (guyot o cordone speronato) che è considerata una forma di allevamento razionale e capace di fornire un prodotto di qualità.
La gestione del suolo con interventi di concimazione e di lavorazione viene effettuata con attenzione perché assolve al compito di mantenere le piante in equilibrio, oppure gli interventi di potatura verde che svolgono la funzione di equilibrio tra la vegetazione e la produzione allo scopo di raggiungere un elevato grado zuccherino e un migliore accumulo di antociani e tannini.
Anche le innovazioni meccaniche in vigna cominciano a vedersi come la cimatrice meccanica, il trinciasarmenti, l’erpice a disco, e si sta passando dalla distribuzione a mano (la cosiddetta botte a spalla) dei prodotti fitosanitari alla distribuzione meccanizzata con il trattorino (atomizzatori a basso e medio volume); sta nascendo una generazione di imprenditori vitivinicoli che utilizza sempre più spesso queste tecniche innovative in modo da avere un prodotto in ottimo stato fitosanitario e di maturazione.
A completamento di un’intensa attività di ammodernamento favorita dalle aziende più dinamiche si deve sottolineare che il territorio è vocato per una viticoltura di qualità avendo a disposizione terreni di buona fertilità, molto sciolti ricavati dalla disgregazione della roccia lavica e dalla deposizione di piroclastiti ricche di potassio e condizioni meteorologiche che favoriscono l’accumulo di zuccheri, antociani e tannini.
I vitigni tipici della zona vesuviana sono a bacca bianca (Falanghina, Catalanesca, Verdeca, Coda di volpe, Caprettone) e a bacca nera (Piedirosso loc detto pal’è palummo, Sciascinoso o Olivella, Aglianico). Esistono vitigni non iscritti nel registro delle varietà da vino, ma famosi solo territorialmente, cioè tramandate di padre in figlio dei quali si conoscono solo i nomi ovvero: Tintoria, pagadebito, Surcillo, Castagnara, Coda di cavallo, Coda di pecora, Sant’antonio, San Pietro.
Altre varietà ma da tavola sono: uva corniola, uva fragola, moscatella, franciscone, barabarossa.
L’area Vesuviana ha ottenuto il riconoscimento della denominazione di origine controllata per il vino “Vesuvio “ nel 1983 con un decreto del Presidente Della Repubblica.
Questo areale descritto nel disciplinare di produzione del vino DOC comprende 15 comuni: Boscotrecase, Boscoreale, Ottaviano, S. Giuseppe Vesuviano, Terzigno, Trecase, Cercola, Pollena trocchia, Ercolano, S.Anastasia, Somma Vesuviana ed altri.
Il Lacryma Christi è una qualificazione prevista nel disciplinare per tutti i vini che hanno una gradazione minima di 12°.
Il Vesuvio bianco è ottenuto dai vitigni Coda di Volpe da solo o congiuntamente al Verdeca in quantità non inferiore all’80% con una presenza minima di coda di volpe non inferiore al 35% del totale. Possono concorrere anche altri vitigni come la Falanghina, e il Greco da soli o congiuntamente al 20%.
Il Vesuvio rosso e rosato devono essere ottenuti dal vitigno Piedirosso da solo o congiuntamente al 80% con una presenza minima del piedirosso del 50%. Possono concorrere altri vitigni come l’aglianico fino al 20%. La resa ad ettaro d’uva prevista è di 100 qli/ha.
Nell’area vesuviana perdurano ancora tecniche tradizionali di vinificazione adottate da privati come la cosiddetta “bollitura” cioè la fermentazione alcolica in recipiente di legno (il carrato, o tinozza) o addirittura in contenitori di plastica, mentre la conservazione del vino avviene in serbatoi di vetroresina o in damigiane di vetro, è molto frequente vedere la fermentazione in presenza di bucce o di raspi (per il mancato uso della diraspatrice) così da avere in partenza già un vino ossidato, molto colorito di pessima qualità (giallo carico).
Un’altra usanza è quella di mescolare la prima e la seconda spremitura della vinaccia conferendo il gusto amaro e tannico, duro quasi metallico con problemi di ossidazione e di illimpidimento del vino oppure per la mancanza di opportuni ed idonei travasi, o l’aggiunta in quantità sproporzionate di metabisolfito di potassio si ottiene un vino con odori molto sgradevoli (acescenza, uova marce) che secondo i trasformatori tradizionali sono sentori tipici di un ottimo vino (il vino fatto con l’uva).
Per non parlare dell’uso indiscriminato che si faceva sui mosti rossi di gesso (calce bianca) per aumentare l’acidità fissa e per favorire la vivacità di colore e non si pensava alle anomalie che si provocavano con conseguente arricchimento in calcio e solfati del vino oppure delle scarse condizioni igienico sanitarie dei locali di trasformazione e di conservazione che permettevano la convivenza di muffe e batteri in ambienti umidi e poco arieggiati.
Fortunatamente diverse aziende vitivinicole investono in cantine nuove rispettando condizioni igienico sanitarie previste dalle norme ed applicano tecnologie moderne (uso di macerazioni prefermentative a freddo, uso della catena del freddo, uso di vinificatori per macerazioni lunghe per i vini rossi); l’applicazione di criteri e tecniche moderne per la produzione e conservazione del vino non è più frutto di regole empiriche ma di procedimenti che richiamano la conoscenza di impiantistica, di chimica e di biologia con risultati positivi in termini di freschezza e longevità dei vini.
Si può dire in definitiva che a seguito della contrazione produttiva vi è la selezione di aziende moderne ed efficienti e con esse la qualità dei vini vesuviani è tuttavia progressivamente migliorata nell’ultimo decennio: i vini rossi sono finemente puliti, pieni, intensi ed i bianchi fruttati e ricchi di personalità.
Ricordiamo infine che il comparto agricolo ricade in un areale geografico con bellezze paesaggistiche come il Vesuvio, il Monte Somma, gli scavi di Ercolano e Pompei, le rovine di Oplonti, le ville vesuviane e la villa ginestra dove il Leopardi si ispirò per le sue liriche immortali.
Per tale ragione nuove iniziative sul territorio come la nascita della Strada del vino e dei prodotti tipici del Vesuvio sono occasioni di integrazione della vitivinicoltura del Vesuvio con i tanti itinerari turistico/archeologici/ambientali per rilanciare un territorio che si inserisce perfettamente in un’area protetta come quella del Parco Nazionale del Vesuvio; bellezze naturali che non hanno nulla da invidiare a quelle delle altre regioni come la Toscana o il Piemonte ed è bene utilizzarle come veicolo di diffusione dei nostri prodotti tipici vesuviani.
Foto: Sergio Romano tra i filari di un vigneto a Terzigno
Complimenti per l’ottimo articolo, che denota la tua straordinaria competenza come enologo ed esperto di questo territorio.
Uno spaccato decisamente illuminante. Ahimè Il titolo potrebbe essere ripetuto per molte delle denominazioni campane alcune davvero incomparabili nella loro (ancora poco decantata) qualità.