Di Elisabetta Tosi
Correva l’anno 1978 – esattamente 30 anni fa, dunque – e nel mondo della critica enologica, così come in quelli del retail e del consumo, stava per verificarsi una piccola-grande rivoluzione.Su Wine Spectator, un certo Robert Parker commetteva l’ardire di dare i voti ai vini.Nasceva così ufficialmente uno dei molti sistemi di valutazione delle bottiglie: quello in centesimi.
Niente di particolarmente originale o nuovo, a ben guardare: semplicemente, i vini venivano giudicati in base ad una scala che altro non era che l’adattamento del sistema di voti in uso nelle High School statunitensi. Come si può vedere dallo schema in apertura, negli USA gli studenti a scuola non ricevono dei voti in numeri, ma in lettere dell’alfabeto: A corrisponde al nostro “ottimo”, B possiamo tradurlo con “distinto”, C con “buono”, D è “sufficiente”, F è “insufficiente”. Parker non ha fatto altro che ri-tradurre questa scala in numeri, ragion per cui un vino valutato 50/100 non vale niente (o è addirittura difettoso), mentre uno tra i 90 e 100 è un capolavoro dell’enologia.Tralasciando i notevoli e altrettanto interessanti aspetti filosofici che pure sottendono a questo genere di valutazione, sappiamo tutti com’è andata a finire: ancora oggi, un vino che negli USA non riesca a strappare un rating compreso tra gli 80 e i 100 punti, rischia seriamente di restare sullo scaffale.Allo stesso tempo però, negli anni si sono cercate delle alternative a questo sistema: ecco pertanto la scala in ventesimi di scuola francese, o quella in stelle, variamente interpretate.Per non parlare delle valutazioni in bicchieri, soli, bottiglie, pallini, chioccioline, grappoli, cuoricini, faccine…Tutto questo, nel bene e nel male, qualche effetto l’ha prodotto: ha aiutato il consumatore a orientarsi nella giungla di etichette, categorizzando e ordinando i vini, e determinando la fortuna o l’insuccesso – a torto o a ragione – di moltissimi prodotti e aziende.Ciò, è bene sottolinearlo, nel mondo della carta stampata e dei media tradizionali.
Ovvero in un sistema di informazioni fortemente vincolato ai tempi (di creazione, realizzazione e diffusione del medium stesso) e alle modalità di fruizione che ben conosciamo.Domanda: tutto questo è valido anche nel web 2.0? In un mondo in cui possiamo avvalerci di nuovi e più dinamici sistemi per scambiarci informazioni, abbiamo ancora bisogno di un qualsivoglia sistema di valutazione dei vini per orientarci nella scelta?I critici del vino universalmente riconosciuti come “autorevoli” – da R.Parker a Jancis Robinson, a Stephan Tanzer, per citarne solo qualcuno – questi sistemi li usano con la massima disinvoltura (e a volte ne abusano).E se a farlo sono i wine blogger, cambia qualcosa? E’ un interrogativo che ogni tanto si affaccia sulla rete.
Fonte:Vino Pigro
Copio ed incollo, su gentile concessione, di Elisabetta Tosi alias VinoPigro un interessante post sulla “vexata quaestio” dei giudizi sui vini: un argomento foriero sempre di vivaci scambi di opinione. Nei commenti ho raccolto, in ordine sparso, i contributi alla discussione di Mauro Erro e Luigi Metropoli, Fabio Cimmino, Giampiero Nadali alias Aristide Blog e le riflessioni di Tom Wark (blog Fermentation) e Robert McIntosh (blog Wine Conversation) tratte dalla puntuale rassegna delle WineWebNews di Franco Ziliani sul sito dell’Ais nazionale. Buona lettura: chi resta a casa per il prossimo ponte ha trovato come passare il tempo…(T.L.)
Tratto da Aristide wine blog linkhttp://www.aristide.biz/2006/11/kobler.html
Metodo e caso: cambieranno i concorsi enologici?
Dopo ampie anticipazioni, ecco l’intervento in video di Armin Kobler, presidente della commissione di degustazione del “1.o Concorso Nazionale del Riesling” a Naturno (BZ). Armin Kobler è enologo (responsabile della sezione “enologia” del Centro per la Sperimentazione Agraria e Forestale di Laimburg – BZ), e vignaiolo a Magrè (BZ) nella propria Cantina Kobler.
Ho già detto che il concorso di Naturno si è caratterizzato per le interessanti modalità della degustazione, basata su due concetti apparentemente complessi: randomizzazione più completa possibile (RPCP) e il controllo dei degustatori (CDD). In realtà, questa metodologia usa la casualità della sequenza dei vini assaggiati da ciascun degustatore con una misura delle performance del degustatore stesso. Mi è sembrata un’innovazione seria e ben implementata, a garanzia di risultati “scientificamente” supportati e meno esposti a condizionamenti all’interno della commissione.
Nel video Armin Kobler ci spiega con chiare parole e semplici esempi come funziona.
Prima di lasciarvi alla visione del video, vi allego un paio di documenti a completamento del post:
questo è un esempio di scheda di valutazione del degustatore utilizzata nel concorso di Naturno;
questo è il paper scientifico di Armin Kobler pubblicato dalla Scuola Enologica di Conegliano nel 1996. In questo documento Kobler discute per la prima volta della “Valutazione sensoriale dei vini ed il controllo degli assaggiatori mediante l’uso di schede di analisi sensoriale non strutturate”, metodologia poi evolutasi nelle forme attuali, dove si realizza indipendentemente dalla scala di misurazione adottata, purchè essa sia di tipo parametrico (cioè si applica a sistemi di valutazione in base /100 o base /20).
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di M. Erro e L. Metropoli
Mauro: durante una degustazione verticale di Ripe del Falco, la maggior parte delle persone presenti, tra i quattro vini in degustazione ha preferito il 1987 al 1989, che, come giustamente è stato notato era il più armonico. In una tradizionale degustazione ho pochi dubbi sul fatto che l’89, avrebbe preso un punteggio più alto ci fossimo trovati schede alla mano. Stessa cosa era successa in una serata dedicata al Vigna Regina Sassella Superiore Riserva di Arpepe: anche stavolta, la maggior parte delle persone preferisce il 1991 al 1995. Quest’ultimo è sicuramente più completo, più lungo, con maggior corpo e struttura, al naso, forse, più scontato, ma anche meglio definito. Pure stavolta in una tradizionale degustazione, schede alla mano, il ’95 avrebbe preso un punteggio maggiore. Come disse Artur Conan Doyle per bocca di Sherlock Holmes (o forse Agatha Christie, bah…), due coincidenze fanno una prova. Tra l’altro, non può essere un caso che in entrambi i casi alcuni tra i degustatori più “sensibili” ed esperti tra i presenti, abbiano preferito il ’91 del Vigna Regina, e l’87 del Ripe. Semplice, erano, semplicemente (scusate il gioco di parole) i più emozionanti. Sui termini possiamo stare qui fino a domani senza venirne a capo, avessero più carattere, più personalità o che, sta di fatto che la capacità che avevano di trasmettere e farsi preferire agli altri è intraducibile secondo il gergo tradizionale e secondo la classica scheda d’assaggio. Ora, in questi discorsi mi ci sono trovato più e più volte, ed ho sempre affermato la mia incapacità di capire i motivi di tanta staticità su discorsi come tecnica d’assaggio e punteggi. Solitamente mi si imputa una deriva epicurea, edonistica, romantico-idealista, “Reverendiale”, manco avessi poteri ascetici. Niente di più sbagliato. È, molto più semplicemente, logica. Allo stesso modo in cui, nel settecento, ci fu la famosa Querelle francese che vedeva da un lato gli antichi e dall’altro i moderni che disputavano sul gusto, l’arte, la bellezza, l’approccio e la critica ad esse, discutendo sull’esistenza o meno di leggi e canoni universali (così ci diamo anche un po’ d’importanza in più), credo si possa anche provare a ridiscutere la tecnica d’assaggio senza rischiare l’accusa di blasfemia. Io credo che l’unica arma (o dote) realmente che conti su cui un degustatore può fare affidamento è lo spirito critico, la capacità di mettere le proprie idee ed opinioni in discussione. Come ho scritto si degusta attraverso se stessi e i propri sensi, e la scheda, così come la tecnica ci serve come STRUMENTO per interrogarci sui noi stessi, più che sul vino, sulle sensazioni che noi abbiamo percepito, tentando RAZIONALMENTE (in un secondo momento) di capire il perché delle sensazioni percepite ed attribuirle alle giuste cause che l’hanno provocate. Invece io assisto ed ho sempre assistito al rovesciamento della degustazione. Al di là del fatto che esiste tanto materiale – dalla critica al sistema centesimale, articolo uscito tempo fa sul New York Times, ad altri interessanti scritti che evidenziano i limiti delle degustazioni alla cieca – da rendere queste mie osservazioni, superflue o banali, mi interrogo sul tentativo di oggettivare o rendere scientifico ciò che scientifico non può essere, visto il materiale vivente che è il vino, chiedendomi il perché un degustatore non dovrebbe tentare di concentrarsi su se stesso più che sulle condizioni esterne pretendendo di arrivare ad un ambiente asettico: cosa impossibile! Leggere la tecnica d’assaggio e la relativa scheda come fine e non come mezzo, pensando che sia la chiave di lettura del vino, è a mio parere, quantomeno strambo. Muovere critiche sarebbe facile, ultimamente leggevo ad esempio una corrispondenza tra Pardini (direttore de L’acquabuona e degustatore de L’espresso) e Rizzari e Gentili (Curatori della guida) in cui il primo si chiedeva come fosse possibile introdurre nella scheda il concetto di bevibilità. Ora al di la del fatto che pare sia impossibile introdurre tale concetto, a me pare strano che il concetto non ci fosse già: ma io il vino me lo devo bere o guardare? Poi si potrebbe parlare del concetto di tipicità o aderenza al territorio o naturalezza espressiva (o naturalezza esecutiva come preferisce chiamarla qualcuno) e via così. Ciò dimostra tutti i limiti delle schede, delle tradizionali degustazioni (ovviamente di limiti ce ne sono tanti altri) e dei punteggi che si attribuiscono. Da ciò ne consegue, a mio parere, che tale capovolgimento ha portato poi a quella distorsione che da questo sistema e dalle guide parte, e che porta a dover parlar di moda e non di cultura del vino. La famosa frase di Gino Veronelli, “il peggior vino contadino è sempre migliore del miglior vino industriale” io l’ho sempre letta così: Il peggior vino contadino è portatore (inconsapevole) di un messaggio, ha in se un elemento significante, che è la cultura stessa che racchiude, a differenza di un vino industriale ben fatto, che per quanto buono sia, è solo finzione. Fino a quando non si arriverà a capire che la tecnica e le schede sono FONDAMENTALI, ma solo strumento, con tutti i limiti che uno strumento ha, e che il vino oltre i parametri tecnici che noi fissiamo ha un quid che non si può oggettivare e quello strumento non è capace di tradurre, allora si avranno sempre vini chimicamente e tecnicamente ineccepibili, pluripremiati e osannati, e parallelamente, un gran numero di modaioli-guidaioli-enochic, ma mai avremmo una vera cultura e consapevolezza del vino, del suo significato a tutto discapito di quei produttori che continuano a perpetrarla.
Luigi: cerco di chiarire la mia posizione. Nella degustazione verticale del Ripe (del Falco) la verità è che sulle prime ero per l’87, a fine degustazione nel bicchiere mi sembrava più reattivo l’89, proprio ciò che ho scritto nelle notarelle. Direi che come valore assoluto l’87 mi è piaciuto di più, anche se mi aspettavo che reggesse alla lunga, invece pian piano ha perso al naso, ma potrebbe essere un dettaglio. Il punto è questo: e qui mi riallaccio a Mauro. Se mi si chiede quale dei 4 era il vino più compiuto (qui entra in gioco anche il termine tecnico “armonico”, nell’ermetica terminologia AIS) allora risponderei ’89. Se mi si chiede quello che più mi ha colpito risponderei ’87. Questa scissione nel giudizio comporta una lunga riflessione sulle categorizzazioni, sulla reductio ad unum di qualsiasi analisi. Accade anche in ambito letterario: di fatto esisterebbe qualche poesia o qualche raccolta che si direbbe più compiuta di un’altra in base a qualche parametro che preveda anche la novità, l’originalità, la bravura tecnica nel versificare, la capacità di evocare per suoni – sul significante – e di esprimere un concetto, un’idea o quel che sia, con un’adeguata figura e arte retorica, una traduzione della materia dell’espressione nell’architettura formale… poi però magari basta un verso, uno solo per farti scaravoltare o quell’inatteso, quello scarto di lato per farti amare l’intera raccolta, l’intera opera dell’autore e te ne infischi di giudizi prefabbricati e cose così. Fin quando esisterà il dovere di analisi, purtroppo si dovrà adottare una griglia di valutazione. La soluzione sarebbe quella di non farsi imbrigliare da tale griglia, ma da adottarla come prontuario, parametro di cui servirsi alla bisogna, senza pertanto divenirne schiavi. Il problema è che si procede per schemi: ad un’analisi subentra poi una sintesi che faccia chiarezza di quanto registrato nella degustazione (anche la poesia si degusta, il parametro è estetico e la base dell’estetica è il gusto, e questo è soggettivo, il buon vecchio Kant insegna e nella critica del giudizio smontava quanto dallo stesso precedentemente scritto in la Critica della ragion pura che adottava per altri campi parametri “infallibili” e precisi: erano appunto le famigerate “categorie”). La sintesi nell’AIS è il punteggio, suscettibile anch’esso di parametri soggettivi: ciò che per me è acido potrebbe essere per qualche altro meno acido e viceversa e qui hai voglia di richiamarti a schemi… Il punto resta sempre la scissione di giudizio di cui sopra. Come ovviare? I parametri devono restare per offrire linee guida, ma poi, una volta metabolizzati, vanno ridimensionati. E ora dunque che fare?
New York Times: critica al sistema dei punteggi in centesimi
Di Fabio Cimmino (libera traduzione ed arrangiamento di un articolo pubblicato sul NY Times nell’agosto del 2006)
Le riflessioni di Rivlin partono da una considerazione iniziale tanto spiazzante quanto, secondo me, grave: Joshua Greene, editore e direttore di Wine & Spirits magazine, pur utilizzando normalmente i punteggi centesimali li ritiene un sistema “senza senso” (“nonsensical”). Possibile, allora, che un sistema apparentemente considerato “sensa senso” possa avere effetti tanto determinanti sulle dinamiche mercato?
Un importante importatore e distributore di vini americano ha affermato che dopo che un vino argentino selezionato per il suo catalogo aveva preso 90 punti su Wine Spectator e la notizia era stata diffusa da un grosso rivenditore di San Francisco a tutti i suoi clienti attraverso una mailing list quello stesso vino aveva subito un’imprevedibile impennata nelle vendite. “Un sorta di benedizione…”
In realtà l’importatore aveva sempre considerato quel vino un buon affare, ne era effettivamente convinto. Eppure un semplice numeretto era stato in grado di trasmettere al pubblico quello che probabilmente le sue parole non c’erano riuscite fino ad allora. 90 non è 89 sia ben chiaro. Un solo punto è nulla ed allo stesso tempo è tutto: “una precisione dei sensi che gran parte degli stessi critici di settore concordano che gli esseri umani non posseggono”.
E’ “come se un punteggio numerico trasformasse, magicamente, in oggettivo ed autorevole ciò che fino a quel momento veniva considerato fazioso e soggettivo”. Quasi tutti i critici di settore ritengono insignficante un punteggio che non sia accompagnato dalle relative note di degustazione. Eppure “quel Numero è spesso tutto ciò che conta!..”
E’ uno dei meccanismi intorno al quale gira la macchina del wine-business ma che è ormai divenuto così abusato ed omnipresente da sembrare non aver più alcun significato. Ma torniamo a Joshua Greene ed alla sua imbarazzante affermazione secondo la quale il sistema non avrebbe alcun senso.
Mr. Greene pur ritenendo i punteggi, di per sè, non essere in grado di fornire valide informazioni al consumatore ed essere un retaggio della preistoria del giornalismo enoico, continua ad usarli. Dice che altrimenti per la sua rivista sarebbe la bancarotta. Una volta sola, infatti, che ha provato a pubblicare un numero della sua rivista senza punteggi ha riscontrato un immediato calo delle inserzioni e dei conseguenti introiti pubblicitari.
“Punteggi superiori ai novanta centesimi hanno per lungo tempo significato, quando abbinati ad etichette dal prezzo accessibili, incrementi sensibili nelle vendite.”
Il punteggio garantisce una “falsa obbiettività”. La scientificità del sistema centesimale è solo apparente!.
Shanken, editore e direttore di Winespectator, la considera, invece, una semplice guida agli acquisti,… niente di più niente di meno che una “guida”…
Ma dobbiamo andare indietro fino al 1978 quando Robert Parker – avvocato reinventatosi critico enoico – comincia a pubblicare la sua “guida agli acquisti” utilizzando la scala di punteggio centesimale. Nasce, così, The Wine Advocate. Fino a quel momento in America si era adottato un sistema molto più semplice da uno a cinque punti che era ben presto sembrato troppo riduttivo e poco significativo… Furono, di lì a poco, gli stessi rivenditori che utilizzando i punteggi di Parker per promuovere le etichette sui loro scaffali a decretare il successo di quel sistema di valutazione.
Wine Spectator adottò quello stesso metodo a partire dal 1980, dopo aver sborsato 80 milioni delle vecchie lire per acquistarlo. Fino a quel momento aveva provato ad adottare altre scale tra cui quella ventesimale senza successo. Il fascino dei cento punti era tutt’altra cosa.
A distanza di più di 10 anni anche Wine Enthusiast e Wine & Spirits avevano adottato la scala centesimale. Non c’era altra possibilità.
Siamo ormai giunti a metà anni Novanta. I consumi erano in costante aumento ed il consumatore americano era molto cambiato. Secondo alcuni fu, addirittura, il sistema di valutazione ideato da Parker ad attrarre maggior attenzione (e consumi) sul vino. Il punteggio, infatti, veniva visto come una sorta di indicazione, al di là del prezzo, quasi inequivocabile per individuarne la qualità.
L’industria del vino, nel frattempo, non sta a guardare e ringrazia. Inviare il numero più elevato possibile di campioni significa per un distributore ricevere il maggior numero di recensioni e punteggi possibili tra i quali, poi, andare a “selezionare” quelli da utilizzare per promuovere i vini del proprio catalogo sugli scaffali.
Nonostante si ritenga che gli unici punteggi che contino siano quelli di Robert Parker e Wine Spectator ci si affanna ancora oggi ad utilizzare i punteggi da qualunque fonte essi provengano, basta che siano sopra i novanta, per promuovere i vini. C’è chi addirittura ha assunto team di degustatori professionisti all’ interno della propria struttura commerciale per valutare gli stessi vini che vende…
Ed il consumatore? L’unica garanzia per il consumatore sarebbe che le riviste non accettassero pubblicità dei produttori. Impossibile anche solo da pensare considerato che questo tipo di riviste esiste grazie alla pubblicità…Nel caso di Robert Parker che su Wine Advocate non accetta pubblicità rimane, comunque, un problema di conflitto di interessi derivante dalla NON-gratuità dei campioni che degusta. In questo caso ed altri simili c’è però chi difende l’integrità dei degustatori appellandosi all’anonimato con cui vengono degustate le bottiglie.
James Lube, di Wine Spectator, continua a ritenere che nonostante la scala di punteggio centesimale sia “imperfetta” continui a rappresentare un’ottima salvaguardia per il consumatore per evitare, soprattutto che questi possa incappare in vini che costino troppo rispetto a quello che valgono. I produttori continuano, dal canto loro, ad essere sempre molto preoccupati per i punteggi che ricevono i loro vini. Gli enologi lo sono ancora di più. William R. Tisherman, che ha diretto in passato Wine Enthusiast, conferma quanto subdolo e deviante possa diventare questo sistema. I punteggi hanno contribuito non solo al successo di singole etichette ma anche a determinare la popolarità di determinati stili di vino piuttosto che altri e di alcuni vitigni a scapito di altri. Qualcuno azzarda che abbiano, addirittura, contribuito ad elevare la qualità media dei vini.
E’ questo sicuramente il fenomeno più perverso a cui ha portato l’adozione dei punteggi in centesimi. La determinazione e l’individuazione di un modello tendente all’omologazione e alla standardizzazione del gusto verso aberranti standard di iperconcentrazione. In questo modo si sono privilegiati i vitigni in grado di far ottenere con facilità certe prestazioni.
Il problema è che la gente”comune” continua ad amare i vini da bere a tavola e da abbinare col cibo: vini più semplici che solitamente rimangono confinati dai degustatori sotto la soglia dgli ottantasei punti.
Alcuni hanno già iniziato ad abbandonare questo sistema di valutazione. Bisogna ritornare ad un sistema semplice che non lasci intendere, nè equivocare, di possedere alcuna scientificità come pretenderebbe di voler apparire un sistema centesimale.
Dalla WineWebNews di Franco Ziliani sul sito http://www.sommelier.it
To rate or not to rate wines? That is the question…
Robert McIntosh sul suo ottimo blog (in inglese) Wine Conversation si pone, parafrasando il celebre To be or not to be di Shakespeare, un interrogativo centrale teso a definire la diversità dei wine blog rispetto ai siti Internet e alle riviste che si occupano di vino: to rate or not to rate? Dare punteggi, in centesimi, ventesimi, stelle, e simbologia varia ai vini oppure limitarsi a raccontarli, descriverli, senza ricorrere a quella loro definizione e valutazione in termini numerici che ha fatto la fortuna di un wine writer come Robert Parker? Vedi articolo Questo, del valutare e dare punteggi ai vini oppure no, sarà un tema di discussione anche nell’ambito dell’European Wine Blogger Conference che si terrà a fine agosto in Spagna (vedi sito) leggi articolo
Della soggettività della critica di vino
Hervé Lalau, redattore della rivista belga In vino veritas e segretario generale della Fijev, sul suo vivace wine blog Chroniques Vineuses, pubblica alcune interessanti riflessioni sul tema, spinoso, della soggettività della critica sul vino e dà spazio al punto di vista di un produttore di vino americano secondo il quale “gli scrittori del vino dovrebbero dar prova di umiltà e rinunciare a pubblicare i punteggi, che sono elemento poco interessante per il consumatore, e pubblicare invece i commenti, soggettivi, che sono molto più interessanti”.
Per Hervé, e sono d’accordo con lui, c’è però una differenza sostanziale tra i giudizi dei consumatori e quelli dei giornalisti specializzati, ovvero il fatto che questi ultimi “visitano spessissimo i vigneti e partecipano a numerose degustazioni a tema e questo permette di giudicare i vini non solo in funzione del gusto personale, ma di quel che il giornalista è consapevole essere la tipicità di una regione o di una denominazione”.
I loro articoli non possono pertanto essere semplici liste di note di degustazione, ma “la volgarizzazione e divulgazione delle conoscenze più profonde che la stampa ha la possibilità di acquisire a contatto con vignaioli, enologi, geologi, agronomi. In questo senso si potrebbe parlare di pedagogia, perché il pedagogo non impone, ma trasmette”. Leggi l’articolo