Di Mauro Erro e Claudio Tenuta

Se andassimo oltre l’aspetto suggestivo, quello primordiale ed ancestrale che ci riporta agli albori della viticoltura, a diecimila anni fa, al Caucaso e alle anfore interrate, cosa rimarrebbe? Oltre la storia, la spiritualità, l’aspetto filosofico che lega le anfore (non necessariamente) ad una viticoltura biodinamica, cosa c’è? Quali i dati empirici e significatici che per noi degustatori, appassionati e studiosi del vino, possano rappresentare un’esperienza significativa che vada al di là del mero giudizio di gusto? È ciò che mi sono chiesto prima di introdurre l’ultima serata dell’eno-laboratorio sui vini anfora le cui note di degustazione di Claudio Tenuta leggerete di seguito.
Eppure, dalle prime sperimentazioni in Italia alla fine degli anni novanta ad opera di produttori come Josko Gravner e Angiolino Maule (che dopo cinque anni deciderà di abbandonarle), l’utilizzo delle anfore durante le fasi di vinificazione e affinamento di un vino prendono sempre più piede incontrando la curiosità di numerosi produttori. Andando a memoria e oltre quelli saggiati durante la serata, Castello di Lispida (Veneto), Josko Gravner (Friuli), Giotto Bini (Sicilia), mi vengono in mente proprio partendo dalla Sicilia, Frank Cornelissen e COS con il suo Cerasuolo di Vittoria, Cristiano Guttarolo in Puglia e il suo Primitivo di Gioia del Colle, Cantina Giardino in Campania (di cui potete vedere alcune foto, gentilmente fornitemi) fino ad arrivare in Friuli con la Vitovska di Vodopivec ed altri ancora. Ciò nonostante, a distanza di dieci anni e più, e fatta eccezione per una tesi di laurea a Milano sotto la guida del Prof. Attilio Scienza, per quanto mi risulta non esiste letteratura scientifica. Ho avuto la fortuna di poter parlare (e li ringrazio per questo) con tutti i produttori dei vini che durante la serata abbiamo saggiato, ma soprattutto con Antonio e Daniela Di Gruttola che mi hanno svelato un mondo nuovo e affascinante, che coinvolgerà tutti noi, fino all’elaborazione anche di un nuovo linguaggio che possa raccontare questi vini.
Vini d’anfora. Ma quali anfore? Quelle caucasiche o quelle spagnole? Le prime realizzate attraverso un metodo – definito a Colombina – che prevede (scusate l’imprecisione) una serie di strisce larghe una decina di cm che messe insieme faranno l’anfora, o il metodo spagnolo, dove è l’abilità dell’artigiano seduto al tornio e che lavora l’argilla a determinare lo spessore dell’anfora (e di conseguenza la permeabilità all’ossigeno)? E quale argilla poi? Un materiale vivo, ricco di minerali, che si differenza da zona a zona. Quella che compone le anfore spagnole, ad esempio, utilizzate da Gabrio Bini (le cui dimensioni sono di 230/240 litri, poco più di una barrique e interrate davanti alla vigna in un terreno di natura tufacea) caratterizzate da la loro componente silicea che durante la cottura ceramizza e di conseguenza non necessita di alcun rivestimento interno (né cera d’api, né altro), o quelle che Cantina Giardino si costruisce da sé? O l’argilla toscana che alcuni produttori stanno provando ad utilizzare?
Per non parlare della differenza delle dimensioni o del rivestimento interno a cui facevo riferimento pocanzi. Siamo così sicuri che questo strumento sia così neutro tanto da esser semplice veicolo di quella presunta “naturalezza” di cui questi vini si ammantano? Eppure pare che sia un materiale che abbia una permeabilità al’ossigeno maggiore rispetto alle classiche botti di legno e di conseguenza influisca non poco sulla reazioni di ossido-riduzione durante la fermentazione. O che, vista la sua natura basica, leghi con gli acidi fissi, (precipitazione dei Sali) e che di conseguenza ci si trovi in presenza di vini (alcuni, non tutti, vi sono altri fattori di cui tener presente) con acidi fissi molto bassi, ma concentrazioni di sali anche cinque volte maggiori rispetto ad uno stesso vino che sia stato affinato in barrique. Per non parlare di una potenziale acidità volatile molto alta in relazione all’influenza, appunto, dell’ossigeno.
Si potrebbe continuare per ore ponendosi interrogativi (di come ad esempio l’anfora sia ritenuto uno strumento estremamente vantaggioso per le vinificazioni con macerazione sulle bucce) che certamente in questa sede non possiamo soddisfare. Se delle botti di legno, delle loro differenza, della natura dei legni e delle tostature molto si sa, possiamo star certi che delle anfore c’è ancora molto da scoprire e studiare, lasciando da parte, almeno noi, discorsi di natura antroposofica, filosofica o spirituale, ma ponendoci con spirito critico, dal punto di vista “tecnico-scientifico” con sana curiosità e passione, perché si possa poi raccontarlo alle persone che a noi, operatori del settore, si rivolgono. La chiudo qui, sperando di aver acceso la vostra curiosità e passando la parola a Claudio, non prima di aver nuovamente ringraziato per la disponibilità e per le informazioni fornitemi, Josko Gravner, Alessandro Sgaravatti e Gabrio Bini. Un particolare ringraziamento ad Antonio e Daniela Di Gruttola.


Nell’enolaboratorio di questa settimana ci si incontra per confrontarci con vini che aspirano ad un ritorno alla “terra” attraverso tecniche di vinificazione e di affinamento, da un lato assolutamente innovative, dall’altro di riscoperta di metodologie andate in disuso o impiegate solo da piccoli viticoltori della ex-Jugoslavia o in alcuni paesi di influenza socialista.La serata inizia con in cattedra il proprietario di casa, Mauro, che ci descrive le origini di questi vini fuori dal normale, il confronto si incentra sulla valenza delle anfore di terracotta nella realizzazione del prodotto finale.La terracotta può avere infatti diversi luoghi e tecniche di produzione e quindi è difficile dare un giudizio univoco sulla sua caratterizzazione del vino.L’unico metro di giudizio non può che essere il gusto e le sensazioni che i tre bicchieri di vino in degustazione riescono a trasmettere a chi cerca di scrutarne i segreti.Amphora 2005 – Castello di Lispida:Il bicchiere si presenta oro antico, limpido con assenza di particelle in sospensione e di buona consistenza, le pareti del bicchiere sono attaccate delicatamente dal liquido creando degli archetti numerosi e di media larghezza sinonimo di un vino con buona componente alcolica.Ci troviamo di fronte ad un Tocai Veneto ed il naso mi porta su note di frutta secca non convenzionale: pistacchio e fichi, poi con la roteazione evolve su note di terra bagnata, accenni salmastri e cipria, infine chiude con delicate sensazioni di nespole e accenni floreali di iris. I profumi li percepisco più complessi che intensi anche perchè tendono ad evolversi gradualmente ma l’impatto verticale non è straripante.In bocca è aggressivo nella sua salinità accoppiata ad una acidità pungente (si protrebbero percepire note di spunto acido), permangono residui di frizzantezza che svaniscono dopo poco, la nota tannica data dalla lunga macerazione sulle bucce è presente ma coperta dalla persistente salivazione indotta dalla altre componenti dure.La nota alcolica ammorbidisce le sensazioni tattili ma la limitata presenza di polialcoli rendono la bevuta volutamente squilibrata.La bocca rimane stordita da note sulfuree e salmastre, ma anche da sensazioni di albicocca in confettura, kiwi maturo, miele di girasole, e accenni di caramello, meno complesso in bocca che al naso.E’ una bevuta non facile ma intrigante che può spingere ad abbinamenti arditi, quali: strozzapreti di farro con pecorino di Farindola e scorzone estivo o una fetta di prosciutto di maiale saltato in padella con cipolline novelle ed origano fresco o ancora del filetto di Sanpietro scottato e integrato da asparagi al vapore di tè verde.Serragghia Bianco 2006 – Giotto Bini:Oro antico un’altra volta, anche se la seconda bottiglia dona a qualcuno un vino totalmente velato, abbastanza limpido ed abbastanza consistente, gli archetti sono meno fitti e le lacrime più veloci nella discesa lungo il bicchiere.In questo bicchiere troviamo uno Zibibbo affinato in anfore spagnole non rivestite, i miei ricordi olfattivi mi portano alla rosa bianca, alla mentuccia fresca, al bergamotto e al cedro, con il bicchiere in roteazione e con gli occhi chiusi avverto sensazioni fresche di mirtillo (frutto rosso, si), geranio e accenni animali e di ruggine.L’aromaticità del vitigno e le sensazioni olfattive mi fanno definire questo bicchiere intenso e complesso e sicuramente di buona corrispondenza con le caratteristiche varietali del vitigno di provenienza nella sua espressione secca e non passita.In bocca entra largo ma non carnoso, il tannino si avverte delicatamente e le note sapide e fresche si alternano in maniera meno aggressiva del precedente vino, alcoli e polialcoli ben bilanciano la tendenza verso sensazioni dure.Le sensazioni gustative riportano la mia mente su percezioni di frutta fresca: mela golden, pera williams, pesca gialla, mentre le sensazioni terziarie svaniscono per far posto a note dolci di panna cotta e crem caramel.La bevuta in questo caso e più semplice ma per niente scontata, in questo caso abbinerei il vino a dei tubettoni di Gragnano con bianchetti e cubetti di patate fritte o uno stracchino affinato qualche settimana con cruditè di verdure o un coniglio con capperi di Salina e olive verdi.

Bianco Breg 2001 – Josko Gravner:Gli occhi sono affascinati dal colore presente nel bicchiere, vedo un rosa chiaretto o ricordo il colore della lega di oro indiano, assolutamente limpido, lucente, quasi consistente, in questo caso il liquido attacca corposo le pareti del bicchiere.Primo naso incentrato su sensazioni rossiste, sidro, lamponi, visciole assolutamente fresche di campo, poi con l’ossigenazione, miele di agrumi e zucchero di canna, infine evolve su note maltate e confettura di corniole.Ancora una volta mi trovo di fronte ad un vino che al naso è più complesso che intenso, in questo caso il vino e il frutto di un uvaggio di diversi vitigni (Sauvignon, Chardonnay, Riesling, Pinot Grigio) e davanti ad un prodotto che affina anche in legno piccolo.L’impatto gustativo è magro e abbastanza alcolico, la bocca è monocorde nel senso che i vitigni sono perfettamente fusi tra di loro ma non riesco a percepire nessun elemento varietale.In bocca rimane assolutamente equilibrato ed armonico grazie al fatto che la spiccata sapidità viene bilanciata da una alcolicità più decisa dei precedenti vini, in questo caso nonostante il colore faccia presagire sensazioni tanniche spinte, queste sono al contrario molto delicate anche se percettibili.Al gusto rimengono sensazioni di visciola, lamponi freschi e susine, poi banana flambè, la persistenza e più che discreta ma secondo me favorita dalle note eteree, quasi di brandy. E’ un vino che trovo difficile da abbinare, meglio berlo meditandoci sopra, almeno questa annata, o con dei prosciutti artigianali tendenti al sapido o una tagliatella al sugo bianco di cinghiale con bacche di ginepro o anche un filetto di spigola in crosta di pane aromatizzato alle spezie fini.