Di Fabio Rizzari
Qualche mese fa Alessandro Masnaghetti, un collega illustrissimo e uno degli amici veri (non molti) che penso di avere nel settore, ha ospitato nel suo periodico Enogea un “pezzullo” che ho scritto in uno spirito goliardico, ma con qualche pretesa di verità. Capire l’enosnob, in tutte le sue temibili varianti, è una vera sfida antropologica. Questo è un primo contribuito critico, che lascio generosamente alle facoltà di Sociologia, agli studenti di Scienze della Comunicazione, e al mio vinaio sotto casa come promemoria.
Psicopatologia del critico e dell’enofilo contemporanei
ovvero, in sintesi:
a) buoni e cattivi critici
b) angoscia nascosta del giudizio e snobismo tra gli appassionati di vino
Mi dispiace, ma dovrete rassegnarvi a leggere una citazione colta ogni tre o quattro righe. Per cominciare, a bruciapelo: chi è un critico enologico? È un arbitro di calcio, e come un arbitro gode di una considerazione non proprio lusinghiera: venduto per il pubblico e incompetente per i giocatori. Vale anche a specchio: venduto per i giocatori e incompetente per il pubblico.
Rispetto ad altri settori della critica, pur rissosi, nel mondo del vino c’è in più una speciale forma di risentimento preventivo dei lettori verso i critici, e dei critici verso i loro colleghi. Un sospetto pregiudiziale che sfocia di solito in odio aperto se non si condivide il giudizio su un vino o un’azienda. “Quel coglione di x ha scritto che il Masseto 2000 è un grande rosso, pensa che fesso”; “essendo un venduto psicopatico, y non ha premiato l’ultimo Barolo di Mascarello”, eccetera.
Da anni mi interrogo su questa ferocia implacabile, esacerbata negli ultimi tempi dalla deriva modaiola che porta qualunque cittadino italiano maggiorenne (almeno all’anagrafe) a scrivere impunemente di vino. Lo sgomento iniziale ha lasciato il posto a una accettazione fatalista della realtà. Qualche motivo, banale quanto si vuole, credo però di averlo individuato.
Il giudizio di gusto espone più di altri al ridicolo potenziale, e rivela più di altri la nostra fragilità. Chi accetta di correre questo rischio ha un atteggiamento più rilassato e libero, non ostile verso gli altri. Il rischio di essere traditi dal proprio lato imbecille è sempre dietro l’angolo, e non conosco un singolo degustatore professionista che non abbia scritto qualche cazzata sparsa. “me ne sono uscito con una fesseria? mah, pazienza, oramai l’ho detta…”, secondo (più o meno…) il vecchio Totò. Diverso è però il caso di non accetta di venire a patti con questo rischio. La paura di dare un giudizio sbagliato, cioè la paura del giudizio altrui, trasforma il critico in un osservatore rancoroso, sospettoso, malevolo verso lettori e colleghi. Lo trasforma nell’uomo che puntualizza.
Il mondo del vino è pieno di uomini che puntualizzano, cercando non tanto di dimostrare la validità delle loro tesi – operazione ovviamente legittima – quanto di screditare quelle altrui. Di qui la poderosa mole di interventi polemici presenti nelle pubblicazioni specializzate e nei siti internet, ricche di astiose confutazioni della critica concorrente e non di rado sprezzanti verso il lavoro di enologi e produttori. “Ci sono persone che sanno tutto, e questo è tutto quello che sanno”, per restare alle citazioni.
Ora, tutto questo andrebbe anche bene, se fosse circoscritto al solo campo della critica enologica. Un settore che rimane un orticello di poca importanza, nonostante alcuni colleghi si considerino e si comportino come Ottaviano Augusto. Ma è una pericolosa forma di inquinamento mentale per chi è appassionato di vino e si fa coinvolgere in questo clima di snobismo generale. A costo di risultare zuccheroso, dico che di fronte a un nuovo vino bisognerebbe sempre avere un atteggiamento iniziale di curiosità e apertura. Il grande Gino Veronelli diceva saggiamente: “il buon critico, e il buon bevitore, prima cerca i pregi in un vino, e poi gli eventuali difetti”.
Per non passare da fessi, o da ingenui, molti critici e molti enofili si dispongono invece a una sorta di caccia all’errore: questo rosso ha la volatile troppo alta, qui c’è troppo legno, questo l’hanno acidificato, e simili. Nella convinzione che un vero esperto non debba mai lasciarsi infinocchiare dai produttori e dagli enologi, dimostrando con una severità implacabile la sua competenza. Guai a lasciarsi sfuggire un ingenuo “buono, questo vino”, non si avrebbe modo di esibire le proprie credenziali critiche.
Bene, io sostengo che tutti, addetti ai lavori e appassionati, dovrebbero tendere a un sano senso della misura. Una misura e un equilibrio che di solito hanno sia i neofiti che i degustatori di lungo corso: in un caso e nell’altro non c’è infatti l’angoscia o l’obbligo di dover dimostrare qualcosa. C’è una disposizione d’animo serena, si “solidarizza” in partenza con il vino che si sta per bere, e solo se il vino è davvero deludente interviene un giusto disappunto; specie se la bottiglia in questione è stata pagata a caro prezzo. La citazione del caso è: “i pazzi e i saggi sono ugualmente innocui. Sono i semipazzi e i semisaggi che sono pericolosi” (Goethe).
Sottrarre severità, dogmi e “tono grave” alla degustazione non significa automaticamente per il critico perdere profondità d’analisi e per l’appassionato perdere intensità di piacere. Anzi. Significa accettare che ci siano opinioni anche molto diverse dalla propria, combattendole – se è il caso – con argomenti solidi e non cercando di ridicolizzarle. Significa non trovarsi intrappolati nel ricatto della competizione con l’amico appassionato, con il sommelier del ristorante, con l’enotecario di turno su chi la sa più lunga. Significa godersi in santa pace una buona bottiglia, e pazienza se il cameriere pensa che siate degli ignoranti perché avete chiesto di raffreddare un Barbaresco.
Fonte:Vino di Ernesto Gentili e Fabio Rizzari
è la prima volta che leggo fabio rizzari (me ignorante…) e l’ho gustato fino all’ultima goccia, apprezzandone la colta franchezza dello stile.
la psicopatologia della vite quotidiana è materia che credo richieda grande e approfondito studio; rizzari ce ne da un ottimo saggio, altro che goliardia (ridendo castigat mores).
concordo col concetto di degustazione pubblica come dribbling tra compiacenza ai presenti e caccia alla “puzzetta” nel bicchiere.