Di Laura Gambacorta
Fresca del corso AIS di primo livello, eccomi arrivare alla Reggia di Caserta, pronta per il mio primo appuntamento con una manifestazione incentrata sul vino…
Radici del Sud inizia (un po’ in ritardo, a dire la verità) con il Forum dei produttori di vino della Campania, che si rivela molto interessante. A condurre le danze c’è l’esperto Luciano Pignataro, giornalista del Mattino e profondo conoscitore della realtà enologica della nostra regione. Al suo fianco troviamo Manuela Piancastelli, giornalista e produttrice (Terre del Principe), Angelo Valentino, enologo e produttore (Macchialupa), Roberto Di Meo, presidente di assoenologi Campania e produttore (Di Meo), e Raffaele Troisi, produttore (Vadiaperti).
Si inizia ripercorrendo l’evoluzione che ha subito la produzione del vino in Campania a partire dagli anni ’90, per continuare col punto sulla situazione attuale del settore enologico regionale, per poi terminare con le prospettive per il futuro. La “rivoluzione” che ha interessato l’enologia campana negli ultimi 18 anni viene espressa in modo chiaro e sintetico dal dato relativo al numero delle aziende irpine che etichettano il vino prodotto: dalle 10 del 1990 si è arrivati alle attuali 114. Purtroppo molti produttori, e non ci si riferisce solo a quelli irpini, sono entrati sul mercato senza avere in mente un chiaro progetto aziendale e questo, prima o poi, potrebbe rivelarsi un limite. In questi stessi 18 anni, caratterizzati dalla scoperta dei vitigni autoctoni, è stata realizzata un’importante mappa ampelografica regionale, purtroppo non accompagnata da un’altrettanto fondamentale mappatura dei terreni della Campania.
Passando alla situazione attuale, seppur in presenza di una produzione di livello qualitativo medio alto, ci sono vari problemi che ostacolano l’affermazione delle aziende campane sui mercati internazionali: la estrema parcellizzazione della produzione, la scarsa importanza attribuita alla comunicazione, assolutamente fondamentale al giorno d’oggi, e l’individualismo dei produttori che, purtroppo, da sempre caratterizza il Meridione. La soluzione potrebbe essere la creazione di un marchio “Campania” da promuovere sul mercato mondiale. A tal proposito è molto interessante l’esempio riferito da Giovanni Ascione di una piccolissima zona della Francia dove i produttori riunendosi in consorzio e autoregolandosi rigidamente sono riusciti a fare affermare sul mercato il loro vino che altrimenti non sarebbe riuscito a conquistare nessuno spazio.
Per quanto riguarda il futuro, tutti sembrano concordi nel puntare sui vitigni autoctoni che permettono di offrire dei vini non “imitabili” in altre aree. Quando il Forum sembra quasi giunto al termine c’è il “colpo di scena”: Nicola Matarazzo, sollecitato a intervenire da Luciano Pignataro, lancia una “provocazione” portando un po’ di scompiglio tra i presenti. Il simpatico Matarazzo sostiene che continuando sulla strada della produzione basata sui vitigni autoctoni, non sempre compresi e apprezzati dal mercato, c’è il rischio che molte aziende campane chiudano presto i battenti.
In pratica ci si trova di fronte al bivio: inseguire il mercato che dà la preferenza ai vitigni internazionali o cercare di far apprezzare ai consumatori la tipicità dei nostri vitigni autoctoni?
Brava Laura!
E invece che ne pensi dell’interessantissimo convegno tenuto da tuo fratello Bruno insieme a L. Moio, G.Fabrizio e N. Trapani?
Grazie, Rosaria! Ho evitato volutamente di commentare il convegno moderato da Bruno, perchè qualunque giudizio positivo sarebbe stato inevitabilmente attribuito all’affetto che mi lega a lui. Comunque anch’io l’ho trovato molto interessante. Perchè non lo commenti tu che non hai “conflitti d’interesse”?
Penso che la provocazione sia opportuna, visto che da 4/5 anni si parla degli autoctoni come panacea contro la standardizzazione.
Ritengo comunque che non tutte le specie autoctone siano necessariamente di successo sui mercati nazionali ed internazionali se non valorizzate con scelte produttive coraggiose.
Inoltre, anche se non amo la diffusione spasmodica di vini piacioni a base di chardonnay o cabernet, questi vitigni di alto lignaggio possono migliorare e nobilitare altre uve prive della giusta forza per affermarsi sul mercato.
Quale mercato…?
la provocazione di Nicola è legittima e assolutamente condivisibile, inoltre è una scossa dal torpore autocelebrativo che spesso caratterizza questo tipo di incontri, tuttavia mi riporta alla mente un pericolo che intravedo talvolta e non solo nel mondo del vino e che voglio sottoporre alla vostra attenzione: parlo delle “oscillazioni ideologiche” :-)
Mi spaventa che proprio adesso che la campania (e non solo) prende coscienza del proprio patrimonio varietale, adesso che gli imprenditori investono nel recupero degli antichi vitigni, che noi sommelier ci preoccupiamo di comunicarlo quanto più possibile, adesso insomma che si comincia a creare la tanto auspicata sinergia delle forze in campo cominciamo a porci il problema se questo sia giusto o meno… Sia chiaro, io riconosco la minaccia della fobica mania di inseguire ad ogni costo l’autoctono e l’idea di legare oltremodo i prodotti ai territori, questo legame infatti come evince proprio in questi giorni può diventare un danno doppio se alla base non c’è reciproca qualità, ma cerchiamo sempre di tenere nella giusta considerazione la potenza della molteplicità di uve locali che è figlia della diversificazione geologica della Campania (unica in Italia) e l’unicità del clima, a prescindere dalla crescente “popolarità” dell’idea che spinge ognuno di noi a cedere all’atavica necessità di cercare sempre nuove originali soluzioni. Insomma seguiamo la strada aristotelica di premiare il territorio solo quando merità e di non chiudersi contestualmente rispetto ai vitigni internazionali, ma con cognizione e, soprattutto, “stabilità” emotiva.
Scherzosamente, ma non troppo, Franco
Ho seguito con attenzione la manifestazione da appassionato quale sono e del tutto estraneo a legani con quanti vivono nel mondo del vino. Interessante la manifestazione. Puntuali gli interventi, qualche volta provocatori, al di sopra di ogni elogio la performance dei sommellier tutti, attenti, pazienti, cordiali, competenti, on qualche caso addirittura dotti. Pessima devo dire, l’organizzazione, non un cartello, non una freccia che ci indicasse dove andare, al piano superiore si operava al buio nella piu totale impossibilità di leggere le etichette sulle bottiglie. I servizi igienici da terzo mondo. E poi, ma scusate, a chi era rivolta questa manifestazione? Noi appassionati che siamo poi anche consumatori, abbiamo avuto la netta impressione di una cosa rivolta a tecnici ed operatori del settore e credo che anche le aziende produttrici, dovrebbero rendersi conto che manifestazioni cosi servono veramente poco se, il loro scopo, è quello di promuovere il prodotto vino. Di nuovo un sentito BRAVO ai sommelier e ..grazie.
Claudio Nannini
Onestamente per quanto sia sicuramente legittima, non so se la provocazione di Nicola Matarazzo sia “condivisibile”. Senza considerare poi quanto il discorso tipicità sia argomento assai spinoso, argomento su cui ieri mi divertivo ad ascoltare Lucia Pintore (non proprio l’ultima arrivata). Io sono dell’opinione che molti argomenti che interessano oggi il vino (tipicità, terroir, biologico) siano una nuova moda che sostituisce le precedenti e che sarà sostituita un domani se non ci si concentra più sull’aspetto culturale che i termini sopracitati racchiudono e sul continuo investimento sulla propria preparazione. Credo anche, che siano i sommelier e gli operatori del settore in genere (ristoratori, enotecari e simili) a doversi occupare della “comprensione e dell’apprezzamento” di determinati vini (nessuno nasce imparato). Senza sottovalutare due aspetti: uno, che il boom del vino degli anni novanta ha fatto crescere in maniera esponenziale il numero di aziende e dei vini, dagli stilisti agli attori ormai tutti si son messi a far vino, e non basta scrivere in etichetta Fiano o Aglianico a stabilire la reale qualità del prodotto, prodotto vino che, (e questo forse dovremmo imparare dai francesi) si fa in vigna e non in cantina come presuntuosamente pensiamo noi, privando di significato la parola territorio. Due, un anonimo Chardonnay campano non potrà mai costare quanto un anonimo Chardonnay australiano o cileno. Da questo punto di vista, se si vuole guardare al mercato, partiamo già sconfitti. Puntare sulla diversità, su ciò che gli altri non hanno e non potranno mai avere, può essere l’unica via per il successo (certo, stando ai rumors Toscani, per quanto banale, questo discorso è di difficile comprensione: Noi Italiani amiamo farci del male da soli).
Ho sentito di recente in un’intervista che la qualità non viene come spesso si dice solo dal terroir o dal clima, ma dalla capacità degli uomini di valorizzare e promuovere i loro prodotti.
Io penso che le ricette magiche non esistano.
Si possono fare degli ottimi o dei pessimi vini con gli internazionali, con gli autoctoni o con entrambi.
Oggi abbiamo in Campania delle eccellenze, ma anche tante aziende che hanno bisogno di mettersi insieme e condividere un progetto comune per migliorare la qualità dei loro prodotti.
Solo se i produttori sapranno fare sistema e sapranno condividere un progetto comune di valorizzazione del territorio e dei prodotti puntando sulla qualità, la sfida si potrà vincere.
Con l’augurio che alla prossima edizione di “Radici del Sud”
si parli di risultato raggiunti e di nuovi obiettivi ,e non ci si trovi a discutere sempre delle stesse questioni senza che il vero cambiamento sia iniziato.