Con Francesco Annibali inauguriamo su Aisnapoli.it una rubrica dedicata ai protagonisti di ieri, di oggi e di domani del mondo del vino: Dialoghi “sobri” ovvero uno spazio nel quale incontrare personaggi del vino in genere, con particolare attenzione a degustatori e comunicatori del nettare di Bacco, grazie ai quali approfondire tematiche di grande attualità e, magari, saziare qualche curiosità.
La prima è quella di rito, per chi non ti conoscesse, chi sei? quando hai incontrato il vino? quale il tuo ruolo oggi nel vino? Insomma, il tuo curriculum vitae.
Francesco Annibali, 35 anni, giornalista e imprenditore nel settore dell’arredamento. Laurea in Filosofia, docente ai corsi AIS, mi occupo di comunicazione enogastronomica dal 1997. Ho collaborato con le principali guide italiane, e dal 2002 collaboro con Autoctono, società milanese di comunicazione enogastronomica. Collaboro con diverse testate nazionali del settore, e nel 2007 ho creato enophilia, rivista on line di enogastronomia. (per il curriculum nel dettaglio qui, ndr)
Cosa, in qualità di degustatore, cerchi in un vino? Quale la caratteristica che, a tuo parere, deve necessariamente avere? La tua “filosofia del vino”?
A dire il vero cerco molte cose. Soprattutto piacevolezza e tracciabilità. Non fa molo fico dirlo, ma le cerco in quest’ordine di preferenza.
Quale la caratteristica che, secondo te, un degustatore, un sommelier, deve necessariamente avere? Intuito, talento, spirito critico…Cosa ti sentiresti di consigliare ad un’aspirante sommelier, o ad un sommelier appena diplomato?
La caratteristica più importante è sicuramente la passione. Degustare è una operazione talmente complicata che senza il fuoco interiore non si va da nessuna parte. Ad un neo sommelier consiglierei di andare in Inghilterra. Per la lingua, ma anche perché per il commercio e la comunicazione del vino è il posto migliore che io conosco.
Cosa vuol dire per te degustare un vino?
Penso significhi soprattutto discernere e paragonare. La degustazione è un atto squisitamente semiosico (nella filosofia del linguaggio, il processo in cui qualcosa funziona come segno, n.d.i.), una catena ininterrotta di abduzioni. Cioè di tentativi, ed interpretazioni. Un po’ come fare le parole crociate. Resto basito di fronte a quanti pensano si tratti di una intuizione.
Hai avuto un maestro nel tuo percorso? E se si, cosa hai imparato da lui?
Un maestro no, ma persone che mi hanno aiutato e influenzato, quelle sì. Inizialmente il ghiaccio fu rotto dall’incontro con Marco Nannetti dell’Enoteca Italiana di Bologna. Devo a lui se ho preso il vino “dalla parte giusta”. Ovvero con umiltà e spirito critico. Poi la lettura del primo Luca Maroni. A seguire, gli assaggi fatti con Antonio Attorre, che mi ha insegnato la misura, Alessandro Masnaghetti, da cui ho appreso molto sulla valutazione dell’esecuzione tecnica dei vini, Carlo Macchi, che è la persona più brava che io conosca a distinguere un vino buono da uno non buono. E Christian Fabrizio, titolare di Autoctono e collaboratore di Attilio Scienza. Tecnicamente un fuoriclasse della degustazione.
Tre vini? tre vitigni? tre zone?
Ti rispondo in prospettiva futura.
Vini: Cesanese del Piglio, Aglianico del Taburno, Alto Adige Val Venosta Riesling.
Vitigni: Cagnulari, Malvasia puntinata, Greco di Bianco.
Zone: Donnas, Valle Isarco, Roccamonfina.
Cosa vorresti la gente bevesse di più e cosa meno? Non so cosa risponderti. Se rispondessi Bollinger e Petrus sarei un cretino, e se ti dicessi una cosa tipo uno sfuso migliore cadrei nel populismo. Piuttosto, mi piacerebbe che tutti si rendessero conto che il proprio gusto personale non deve rappresentare un ostacolo ad assaggiare cose nuove.
Una zona o un vino sottovalutato ed uno sopravvalutato?
Pochi i vini realmente sottovalutati, ma i Nebbioli del Nord Piemonte, sì, lo sono. E poi se ci sono da noi dei vini davvero “borgognoni”, sono proprio loro, più di Barolo o Pinot Nero atesini. Molti i vini sopravvalutati. Restando da noi, la Ribolla e il Nero d’Avola. Ed anche col Franciacorta non c’è molto feeling a dire il vero.
La più grande bottiglia che hai bevuto?
Una?!? Krug 1988 e 1982, Dom Perignon 1971, Montrachet 1991 Marc Colin, Corton Charlemagne 1990 Bonneau du Martray, Barbaresco Santo Stefano 1988 Giacosa, Barolo Cascina Francia 1989 e Monfortino 1978 Giacomo Conterno, Barolo 1961 Bartolo Mascarello, Cheval Blanc 1998, Latour 1982, Chambertin 1985 Ponsot, Musigny 1989 de Vogué, Riesling TBA 2003 Donnhof, Vinsanto 1988 Avignonesi…ma se devo dirne una sola: il Riesling (base) 1990 di Trimbach, bevuto sotto un albero ai bordi di un vigneto dalle parti di Riquewihr, estate 2002, con la mia fidanzata (che ora è mia moglie).
La bottiglia che continui ad inseguire?
Un grande Madeira.
Ultimamente pare vi sia un cambio di direzione, tanto nelle guide e nelle riviste, tanto nei produttori. Oramai discorsi e termini come biologico e biodinamico si sentono più spesso. Eppure io vedo ancora tanta confusione in giro, con la conseguente distorsione che molti produttori ci si buttano dentro fiutando l’affare e che per i consumatori, lontani da una certa consapevolezza sull’argomento, sia solo una nuova moda. Tu che approccio hai a questi vini?
Devo dire che lo scetticismo spesso prevale sulla curiosità. Il biologico si radica e si nutre di un immaginario potenzialmente ingannevole di “purezza naturale/ritorno all’incontaminato primitivo” che non mi convince affatto: il vino non è esattamente un prodotto naturale, il prodotto naturale del succo d’uva è l’aceto. Di più: i vini migliori provengono dalle zone più ostiche per la vite, dove l’uomo pratica quasi una forzatura. Questa “benignità” della Natura insomma non sta in cielo né in terra. Il biodinamico si basa su pratiche finora non falsificabili. E’ dunque una affascinante superstizione. Non che creda che l’enologia debba essere scienza in senso forte – questo proprio no – ma sono convinto debba costituirsi come un insieme di pratiche ragionevoli che possono (debbono?) essere supportate da conoscenze teoriche. Il vero problema, andando oltre l’ideologia del biologico e la fragilità concettuale della biodinamica, è che negli ultimi 20-30 anni le conoscenze tecnologiche (non ho detto scientifiche, ma tecnologiche) sono progredite talmente tanto da diventare il fondamento delle pratiche di cantina. A scapito della degustazione.
Altro leit motiv di questi tempi: Tipicità e terroir. Ma secondo te ha senso parlarne, laddove, in Italia, mappature e zonazioni vere e proprie mancano (fatta eccezione per qualche zona), studi agronomici sono ancora molto pochi, e, da un punto di vista scientifico e chimico, lo studio dei vitigni e delle loro componenti che definiamo varietali ha ancora molto da dire? Anzi, aggiungo, oggi sento sempre più spesso tra i degustatori il termine “naturalezza espressiva” che va sostituendo quello di tipicità, tu che ne pensi?
La tua domanda contiene già la risposta, con la quale concordo. Senza una zonazione non ha molto senso parlare di terroir. Forse sarebbe più giusto parlare di “somiglianze di famiglia”, alla Wittgenstein. Ovvero: il Barolo è il minimo comun denominatore delle caratteristiche costanti o soventi dei vini storicamente fatti col Nebbiolo nella zona del Barolo. Ma senza una zonazione e uno studio delle componenti varietali dei vitigni non si riuscirà mai a stabilire l’orizzonte delle innovazioni “leali” apportabili al Barolo.
In un recente convegno tenutosi a Napoli che cercava di analizzare il rapporto tra terra e vini il Professore di enologia dell’università di Bordeaux Dubourdieu ha affermato che “Il terroir è la capacità accertata di un territorio, grazie all’opera dell’uomo, di produrre un vero
gusto caratteristico apprezzato dal mercato”. Il che, in barba a noi degustatori che tanto ci interroghiamo, vorrebbe dire, a suo parere, che un gusto caratteristico esiste solo ed esclusivamente se apprezzato dal mercato…Tu che ne pensi?
…che si tratta di una definizione di terroir sin troppo bordolese. Battute a parte, il terroir è il frutto della sinergia tra territorio, vitigno e uomo. Occorre solo intendersi sul termine “uomo”: di solito si riferisce alla comunità dei produttori e/o dei consumatori primordiali di quel vino, mentre Dubourdier, da bravo bordolese, evidentemente pensa alla totalità del mercato.
Tu oltre ad essere un bravissimo degustatore, sei anche un elegante comunicatore di vino con la tua rivista on line enophilia. Cosa ti preme di più trasmettere nei tuoi scritti?
Dubbi. Detesto il trionfalismo imperante: ha portato alla spettacolarizzazione del vino e non ha frenato (forse anzi lo ha accentuato) il calo dei consumi. Un altro mio nemico giurato è lo snobismo enoico. Non è vero che per apprezzare un Monfortino di 20 anni occorra aver letto Tolstoj: è un pregiudizio falso intriso di cattiveria. Mio suocero ha la 3° media, e quando gli feci assaggiare il Barbaresco Santo Stefano 1988 di Giacosa se non mi sbrigavo se lo finiva lui. E adora il Dom Perignon. Vero è che Umberto Eco in un Monfortino ci trova una cosa, mentre Mario Rossi ce ne trova un’altra. Ma in entrambi i casi nel vino e attraverso di esso sia Umberto Eco che Mario Rossi rispecchiano sé stessi e il proprio mondo.
Tre penne di vino la cui lettura, secondo te, è imprescindibile?
Te ne dico più di tre. Michel Bettane, Andrew Jefford, Tom Stevenson, Jancis Robinson, Michael Broadbent, Hugh Johnson, Jamie Goode. E Robert Parker. Si, proprio lui. Il suo tanto vituperato punteggio centesimale è senza alcun dubbio la più grande trovata comunicativa del mondo del vino degli ultimi 30 anni. Spesso discordo da lui, ma nessuno di noi, nemmeno il più fanatico sostenitore dei vini “antagonisti”, può non dirsi – e scomodo Croce – parkeriano.
Perché, a tuo modo di vedere, l’ambiente dell’enogastronomia in questi ultimi anni induce fin troppo nella polemica, negli attacchi personali, nelle querele incrociate? Semplici personalismi, scontro di ideologie, o più semplicemente interessi commerciali che coinvolgono dagli editori ai produttori ecc. ecc.?
Di certo i personalismi hanno un ruolo importante. Sai, in fondo essere appassionati di vino e cibo vuol dire anche non aver superato la fase della soddisfazione orale. Questo spiega il gran numero di personalità infantili ed ego sovradimensionati presenti nel mondo del giornalismo enogastronomico.
Io ho conosciuto abbastanza bene Umberto Eco, intellettuale di spessore internazionale: non esattamente una persona alla mano, ma ti posso garantire molto più modesto di tante mezze figure presenti nel nostro ambiente.
Come vedi l’avvento dei wine e food blog, cosa pensi di questo movimento? Che giudizio ne hai rispetto alla stampa specialistica?
Che si tratta di un fatto positivo, purchè ci si renda conto che il giornalismo è un’altra cosa. Un bravo appassionato che apre un blog è una manna dal cielo, un bravo appassionato che apre un blog e pensa di fare giornalismo crea solo confusione.
Cosa non deve fare un critico?
Cadere nell’autoreferenzialità, pensare che criticare sia una questione personale tra sé e i produttori. In fondo, un critico è “solo” un filtro tra produzione e opinione pubblica. E deve ricordarsi che deve parlare all’opinione pubblica. Cosa che succede molto più di rado di quanto si pensi, soprattutto tra le guide. Se parla alla produzione nel migliore dei casi fa il consulente (magari involontario), nel peggiore fa marketing travestito da giornalismo. Che, assieme all’improvvisazione, è il vero cancro del nostro ambiente.
Cosa vorresti facesse di più l’AIS?
L’AIS è diventata una “lucrosa macchina da guerra”, vendendo corsi di ottimo livello agli appassionati. Ma lo ha fatto svilendo il rapporto coi professionisti del vino, che deve riallacciare per stabilizzarsi nel lungo periodo. Tanto per fare un esempio, nella mia provincia (Macerata), dove l’AIS spadroneggia, i sommelier dei due principali ristoranti (Due Cigni di Montecosaro e Le Case di Macerata) sono da anni del tutto estranei alla vita associativa. Non credo si tratti di un caso. E per coinvolgere i professionisti l’AIS deve diversificare nettamente la formazione e i ruoli per questi ultimi da quelli per gli appassionati, e rivestire i professionisti di un ruolo preponderante all’interno dell’Associazione. Sono gli appassionati a doversi sentire “ospiti” in casa AIS, e non i professionisti. Altri due aspetti: non sarò simpatico, ma sono convinto che il ruolo di relatore debba essere riservato a persone con almeno un diploma di Laurea. Ultimo punto: l’AIS è, come la ha definita genialmente il mio collega Franco Ziliani, un Ministero. Contano troppo i giochi di potere e i rapporti personali, a scapito del merito. Di certo non un problema esclusivo dell’AIS, ma lì mi sembra accentuato.
Come vedi il mondo del vino Italiano oggi?
Sul piano della produzione i progressi sono enormi e sotto gli occhi di tutti. Su quello del commercio mi sembra che la figura dell’agente classico sia un po’ in declino, a favore della distribuzione specializzata. Il grande problema è il ramo della comunicazione, confuso e approssimativo.
Giochiamo un po’: a cena con Franco M. Ricci e Carlo Macchi, a chi fai scegliere il vino?
Direi a Ricci di dare i soldi a Macchi per fargli comprare il vino.
Cernilli e Sangiorgi?
Cernilli. Ma gli direi di ordinare un vino che piace a lui, e non un vino necessariamente premiato dalla sua guida. Sangiorgi per i miei gusti indugia eccessivamente nel “vero imperfetto”.
Cosa stapperesti adesso per la fine (da te tanto agognata, immagino) di questa intervista?
Un Moscato d’Asti di Saracco. Ghiacciato, of course. Ma anche una lemonsoda andrebbe bene.
Grazie.
Grazie a te.
Chi è Francesco Annibali:
Nasce a Bologna nel 1973, ma dal 1976 vive a Civitanova Marche (MC). Laurea in Filosofia, docente di tecnica della degustazione ai corsi AIS, si occupa di critica enogastronomica dal 1997. Ha collaborato, tra l’altro, con Vini d’Italia (Gambero Rosso e Slow Food), Duemilavini (Bibenda) e Vini Buoni d’Italia (Gribaudo), ed ha curato la rubrica Wine Trends del settimanale finanziario Bloomberg Investimenti. Dal 2002 collabora con Autoctono. Tra i grandi amori, in ordine sparso: i trenini Lego (da bambino), Marco Van Basten e Andrea Giani (da ragazzo), Francis Bacon, Caravaggio, la Pallavolo, Bruce Springsteen, Ludwig Wittgenstein, Krug, Trimbach, Hermann Donnhoff, i vini di Gevrey Chambertin, il Barolo, il Moscato d’Asti, l’Aglianico. Non disdegnerebbe vedere l’Inter in B e Carmen Consoli in catena di montaggio. Nella foto è quello a destra.
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